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La nuova politica estera giapponese alla prova del Medio Oriente

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Con una velocità che rischia di mettere a soqquadro i piani del Primo Ministro Abe Shinzo, mutano lo spazio e il ruolo del Medio Oriente nella politica estera giapponese. Da essenziale fornitore di fonti di energia (80% dell’import di petrolio), il Medio Oriente si sta trasformando per Tokyo in un punto di riferimento geostrategico, ovvero in un fattore chiave della revisione di fondo del rapporto tra il Giappone e il resto del mondo iniziata quando i liberaldemocratici sono tornati al potere (dicembre 2012). Un obiettivo, questo, che l’attuale leadership – consapevole della forza che le deriva dalla mancanza di credibili formule di governo alternative – persegue con determinazione seppure anche con una certa cautela. Lo shock rappresentato lo scorso gennaio dall’uccisione da parte dello Stato Islamico (IS) di due cittadini giapponesi proprio all’indomani di una missione del Primo Ministro nella regione (Egitto, Giordania, Israele e Territori Palestinesi) ha poi inciso sul dibattito intorno al senso da dare alla parola d’ordine della nuova politica estera: proactive contribution to peace. Questa era stata coniata da Abe per sintetizzare il suo cambiamento di rotta di ispirazione nazionalistica, ma rischia ora di deragliare.

Liberare il Paese dai vincoli derivanti dalla Costituzione del 1947 e chiudere la fase della “eccezione nipponica” aveva infatti un obiettivo preciso: dare a Tokyo mano libera per agire in Asia in funzione di controllo dell’espansionismo cinese. Ora scoprire che il contenimento della Cina tende a trasformarsi in una “responsabilità globale” e a risucchiare il Giappone nel buco nero delle contraddizioni mediorientali solleva imprevisti interrogativi. Nei suoi rapporti col mondo arabo – e più in generale con l’universo islamico – il Giappone aveva tratto grandi vantaggi, nei decenni passati, dalla sua sostanziale neutralità. L’alleanza con gli Stati Uniti non nuoceva proprio perché fortemente sperequata. Non aveva messo in discussione gli approvvigionamenti di petrolio neppure negli anni Settanta e Ottanta, malgrado le turbolenze seguite alla guerra del Kippur e alla rivoluzione iraniana. Invece l’assertività nel settore Asia/Pacifico, supportata da una lunga serie di aggiustamenti legislativi, mostra di essere un messaggio erga omnes, amici e nemici mediorientali compresi, ed erode la credibilità del principio dell’equidistanza.

La disponibilità dimostrata nell’area del Mar Cinese Meridionale ad accompagnare la presenza tradizionale – investimenti per le infrastrutture – con l’accoglimento di richieste riguardanti la sicurezza del partner americano rimbalza in Medio Oriente in modo nuovo alla luce della centralità che sta assumendo il contrasto dell’IS. Le iniziative diplomatiche equivalgono sempre più chiaramente a scelte di campo. Un banale aiuto economico al Presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi, come quello accordato da Abe a gennaio, diventa un sostegno politico/militare a colui che ha sciolto con la forza il governo dei Fratelli Musulmani. La nuova legge giapponese che consente di esportare armamenti, trasposta in Medio Oriente, fatica ad apparire, come forse sperava Abe, solo un mezzo per incoraggiare il business – di cui il Premier, con missioni negli emirati più ricchi, si è precipitato a farsi portavoce fin dall’inizio del suo nuovo mandato. Non era stato casuale che i primi sistemi d’arma venduti all’estero (sensori per missili) fossero finiti al Qatar, e che il “favore” sia stato ricambiato: l’emirato sembra infatti pronto a stabilire con Tokyo una sorta di partnership privilegiata costruita su affari miliardari. Lo si è visto in febbraio, con la visita in Giappone dell’emiro Tamim bin Hamad al Thani che, tra l’altro, ha fruttato a Mitsubishi e altre imprese nipponiche una commessa da tre miliardi di dollari per la costruzione della metropolitana a Doha.

Questa logica di cambiamento presagisce la trasformazione delle disordinate scelte fin qui operate dal governo in un piano organico di riforme che dovrebbe ottenere luce verde entro l’attuale sessione della Dieta, ovvero entro giugno. Il perno di questo piano è una legge “permanente” sull’invio delle forze di autodifesa in aree lontane dai confini (oggi ogni invio richiede un’apposita legge o un mandato dell’ONU). L’obiettivo è la sicurezza nazionale che secondo Abe non può essere protetta solo ipotizzando interventi militari per “situazioni di emergenza” nell’immediata “periferia”. La norma attualmente in vigore, del 1999, si riferiva a una eventuale crisi in Corea o a Taiwan. Ora si pensa – ben oltre l’immediata periferia – all’Oceano Indiano e al Medio Oriente, promuovendo il Giappone a potenza marittima che collabora a tenere aperte le principali vie di comunicazione: lo stretto di Malacca e lo stretto di Hormuz. Inoltre cambia la filosofia degli aiuti per il sostegno allo sviluppo (Official Development Assistance, ODA). Sarà permesso estenderli alle forze armate dei partner (con la curiosa condizione che non siano usati per scopi militari).

Considerando che al Medio Oriente nel prossimo biennio saranno dedicati 2,5 miliardi di dollari, il ventaglio di opzioni che il governo giapponese si riserva diventa un fattore strategico in grado di influire sui punti caldi della regione. Anzi rischia di essere il più rilevante fallout di quel proactive and strategic uso della assistenza oltremare sbandierato da Abe per trasformare gli ODA in una componente della politica per la sicurezza nazionale.

Quanto alle missioni che le forze di autodifesa sarebbero chiamate a svolgere, dovrebbero riguardare anche il security enforcement, l’assistenza alla ricostruzione e interventi umanitari di ogni genere; tutte casistiche che dall’Afghanistan, all’Iraq alla Siria fanno pensare ad una futura presenza giapponese nell’ambito di forze multilaterali operanti in situazioni di conflitto.

Il problema allora per Abe diventa duplice: da un lato deve impedire che i messaggi provenienti dal Medio Oriente irrigidiscano gli oppositori interni alla sua linea di proactive contribution to peace. Dall’altro deve rimodulare l’approccio alle tematiche mediorientali fino a ieri limitato a un generico sforzo per consolidare la presenza degli interessi nipponici elargendo consigli fatti di moderazione a buon mercato (esempio tipico l’insistenza su una “soluzione pacifica” alla questione palestinese, confermata anche durante la visita in Israele nel gennaio scorso). Sul fronte interno Abe ha tamponato come ha potuto la tempesta emotiva provocata dal rapimento di Goto Kenji e Yukawa Haruna. Da un lato si è barcamenato tra fermezza e disponibilità al dialogo coi terroristi; dall’altro ha cercato di ridurre al minimo il pericolo di altre analoghe crisi: chiusura dell’ambasciata in Yemen (sull’esempio degli americani), blocco dei viaggi in aree di guerra, ritiro da eventi sportivi come la World Cup di pentathlon al Cairo o un torneo di ping pong in Kuwait. Ma non è stato possibile arginare la crescita di un nostalgico rimpianto della consolidata neutralità del passato, se non addirittura di spinte isolazioniste. Se ne fanno promotori non solo marginali gruppi della sinistra ma anche il Komeito, junior partner di ispirazione buddhista nella coalizione di governo, la cui resistenza a spingere fino alle estreme conseguenze la nuova “interpretazione” della Costituzione fatta propria dal governo nel luglio scorso è maggiore di quanto Abe prevedesse.

Quanto alla revisione degli obiettivi diplomatici in relazione al Medio Oriente, si procede su più fronti: porre fine al deficit di relazioni messo in evidenza durante la crisi degli ostaggi (si è fatto affidamento solo su Giordania e Qatar come partner regionali), evitare il coinvolgimento in diatribe di ordine religioso; trovare un equilibrio tra le autonome iniziative di Tokyo e il coordinamento con Washington. Si intravvede insomma l’idea di una proiezione di potenza, magari sfruttando l’impegno contro l’IS, che potrebbe rapidamente diventare la base per guadagnare posizioni nella regione. Durante la sua visita in Egitto Abe ha sottolineato che “la stabilità del Medio Oriente è condizione essenziale per la prosperità del mondo e dunque anche del Giappone”. “Se lasciassimo che il terrorismo o le armi di distruzione di massa si diffondessero nella regione – ha aggiunto – tutta la comunità internazionale ne avrebbe un danno enorme”. Di conseguenza ha annunciato lo stanziamento di 200 milioni di dollari per sostenere i Paesi in lotta contro il terrorismo (ufficialmente per aiutare i profughi). Il Ministro degli Esteri Kishida Fumio ha poi promesso 15,5 milioni supplementari. Un’altra via di ingresso al Medio Oriente è la missione antipirateria nel golfo di Aden, di cui in maggio un ammiraglio giapponese acquisirà il comando. Dato che gli attacchi dei pirati somali si sono ridotti al minimo e non costituiscono più una reale minaccia per i commerci, la missione sembra segnalare la volontà di mantenere anche una presenza militare accanto a quella economica, oggi rappresentata da 273 ditte operanti negli emirati del Golfo, 105 in Arabia Saudita, 12 in Turchia, 32 in Iran, 16 in Giordania, 6 in Libano e perfino 2 in Siria. Riconduce inoltre al primario obiettivo della competizione con la Cina, ugualmente impegnata a guadagnare spazio (basi e consensi) nell’area, e del consolidamento dell’alleanza con gli Stati Uniti.