Dopo la proclamazione d’indipendenza della regione di Barqa (la Cirenaica) nel 2012, arriva anche quella del Fezzan, la regione sud-occidentale della Libia. Torna così in auge lo spettro di una Libia spaccata che perfino unita (almeno sulla carta) è complessa da controllare e far funzionare come uno Stato di diritto.
Non si può negare che mai quanto oggi il governo guidato dal premier Ali Zeidan è in crisi e ha perso la fiducia di buona parte dei cittadini. Una crisi politica che è stata accentuata da due fattori in particolare: il grave deterioramento della situazione di sicurezza negli ultimi mesi – e in particolare a Benghazi – e, per ultima, la chiusura di numerosi impianti e porti petroliferi nella Cirenaica, che ha già causato ingenti danni economici alla Libia, un Paese la cui economia è fondata per almeno il 90% sulle risorse petrolifere. Inoltre, la sospensione delle attività dei porti ha inevitabilmente interrotto il flusso di oltre mezzo milione di barili esportati al giorno, attualmente scesi a meno di 300 mila, innescando una crisi anche con le compagnie petrolifere straniere (compresa l’italiana Eni).
Una manovra, quella di chiudere i porti petroliferi della Cirenaica, apparentemente dettata da questioni di natura amministrativa ma in realtà fondata su questioni politiche: si deve infatti considerare che le sue principali menti, i fratelli Jadran, sono al tempo stesso i leader politici dell’autoproclamata “Regione di Barqa”, e in cambio della ripresa delle attività petrolifere chiedono lo scioglimento di governo e parlamento. Più precisamente, cercano di far cadere il governo con le recenti accuse rivolte al presidente della Commissione Energia del Parlamento di aver versato tangenti per la riapertura degli impianti.
Del resto, continuano con insistenza gli appelli alla caduta del governo Zeidan, sostenuti, nelle ultime settimane, da diversi articoli d’opinione che sottolineano l’inefficienza dell’esecutivo.
Lo scorso 21 settembre, decine di cittadini sono tornati in Piazza dei Martiri, a Tripoli, per chiedere appunto lo scioglimento del governo, ritenuto incapace di risolvere i problemi del Paese. Allo stesso modo, i dimostranti hanno contestato la recente decisione di rinnovare il mandato dell’Assemblea Nazionale Generale (il parlamento libico), in scadenza il prossimo febbraio. Quattro giorni dopo, una manifestazione simile ha avuto luogo a Sirte, dove decine di ribelli hanno bloccato la strada che conduce a Benghazi.
A fronte di questa emergenza, il secondo partito libico, la liberale Alleanza delle Forze Nazionali (AFN), guidata da Mahmud Jibril, ha lanciato ufficialmente l’iniziativa del dialogo nazionale, l’unica ritenuta in grado di far uscire il Paese dalla crisi. Un’iniziativa che ha già raccolto il favore dell’altro grande partito, antagonista dell’AFN, l’islamista Giustizia e Costruzione (JCP), espressione politica nazionale della Fratellanza musulmana (che peraltro non manca di evidenziare frequentemente l’inefficienza dell’esecutivo). A tal proposito, durante un recente incontro con alcuni ambasciatori occidentali in Libia – compreso l’italiano Giuseppe Buccino Grimaldi –, il leader del JCP, Muhammad Sawan, oltre a ribadire l’inclinazione del suo partito al dialogo, è tornato a criticare il primo ministro Zeidan, esonerando al contempo da ogni responsabilità i ministri del JCP che fanno parte della coalizione al potere.
Il timore maggiore, avvertito dai libici ma soprattutto dalla comunità internazionale, è che la Libia possa diventare uno “Stato fallito”, con tutto ciò che ne conseguirebbe in termini politici, economici e di sicurezza, soprattutto per un Paese europeo vicino come l’Italia.
Nonostante la critica situazione nel Paese e le pressioni del fronte “federalista” (o secessionista, per oggi ancora minoritario), numerose tribù, in diverse aree della Libia, stanno ribadendo il loro sostegno all’integrità territoriale libica e alle istituzioni nazionali come il parlamento e il governo.
Sono questi ultimi, e non altri, gli appelli che la comunità internazionale – che ha sostenuto la Libia nella sua rivoluzione – deve accogliere, conscia del fatto che una caduta del governo, allo stato attuale, o la diffusione delle spinte federaliste non farebbero altro che far piombare la Libia in uno stato di caos assoluto, favorendo l’emergere di minacce come il terrorismo transregionale (Ansar al-Shari’a e AQIM), le lotte tribali e i sostenitori del vecchio regime.
Uno scenario che presuppone non tanto l’individuazione di un regime alternativo – come può essere quello federalista – quanto lo sviluppo di una cultura politica e civica, accanto al confronto e al dialogo. Un approccio che ha portato, le scorse settimane, alcuni Paesi occidentali, Italia compresa, a diffondere un comunicato congiunto a sostegno del governo e delle istituzioni libiche.
La realtà, di cui dovrebbero essere ben consapevoli sia i libici che la comunità internazionale, è che
nonostante il fascino degli appelli al federalismo, la Libia oggi non può permettersi ulteriori spaccature.