Inizia ora il complesso processo di ratifica del “Fiscal Compact” firmato il 2 marzo scorso a Bruxelles da venticinque paesi membri dell’Unione Europea. Il “Trattato sulla Stabilità, sul Coordinamento e sulla Governance nell’Unione Economica ed Europea” contiene una sola novità di politica economica: l’obbligo, per i paesi con debito eccessivo, di ridurlo ad un ritmo regolare (il 5 per cento annuo) verso il livello di riferimento del 60 per cento del PIL. In effetti, l’obbligo di bilanciare il deficit strutturale (al netto cioè delle componenti cicliche, che sono sostanzialmente fuori dal controllo delle autorità di politica economica) era già contenuto nel Patto di Stabilità che governa la politica fiscale della zona euro dal 1997.
Il nuovo Trattato ha l’obiettivo di dare forza costituzionale a vincoli che finora sono stati rispettati in modo parziale, e quindi di spingere i paesi firmatari verso una più stretta sincronizzazione delle loro politiche fiscali basata sulla disciplina di bilancio. Il Fiscal Compact, come già il Patto di Stabilità, è basato sul rifiuto della politica discrezionale come strumento di stabilizzazione del ciclo. Il bilancio strutturale in pareggio implica che aumenti o diminuzioni del deficit venagno solo dall’operare degli stabilizzatori automatici, cioè quelle voci del bilancio che variano automaticamente nelle varie fasi del ciclo, senza intervento alcuno delle autorità di politica economica (sussidi di disoccupazione, entrate fiscali, etc.).
La scelta sull’uso della politica economica discrezionale, e sull’adozione di regole più o meno restrittive, può essere condivisibile o meno; l’essenziale è però che le istituzioni che la accompagnano sono coerenti con essa. Si prenda l’esempio degli Stati Uniti: fattori storici e culturali hanno nel corso degli anni portato alla scelta, frutto di un processo democratico e largamente condivisa, di una riduzione del welfare state al minimo indispensabile. Pensioni, sanità, disoccupazione, e in generale la protezione sociale, sono tutti campi nei quali i cittadini americani hanno scelto di privilegiare scelte individuali rispetto alla mano pubblica. Questa scelta lascia una vasta parte della popolazione, volontariamente o meno, in balia delle fluttuazioni economiche. È quindi stato necessario che il sistema istitutionale evolvesse verso una configurazione che minimizzi l’ampiezza delle fluttuazioni, i cui effetti sull’economia sarebbero in caso contrario tali da mettere in pericolo la coesione sociale. È per questo che lo statuto della banca centrale, la Fed, prevede fin dagli anni settanta che essa persegua l’obiettivo di stabilizzazione del ciclo e di riduzione della disoccupazione, accanto a quello di stabilità dei prezzi. Ed è per questo che la politica fiscale è stata sempre estremamente reattiva nel contrastare i rallentamenti dell’attività economica, indipendentemente dal colore politico delle amministrazioni che si sono succedute.
In altre parole, negli Stati Uniti la scelta democratica di ridurre al minimo la capacità dello stato sociale di assorbire le fluttuazioni economiche, ha lasciato l’onere di questo compito sulle spalle della politica macroeconomica, che è sempre stata estremamente reattiva. È per questo tra l’altro che i tentativi di introdurre la regola del pareggio di bilancio federale hanno poco successo.
Ugualmente coerente era il sistema istituzionale disegnato sulla carta dal Trattato di Maastricht. Sia pure con differenze importanti tra i vari Stati Membri europei, nel dopoguerra si è fatta la scelta di privilegiare uno stato sociale di natura pubblica, che ha giocato un ruolo molto importante nell’assicurare un livello di vita stabile agli individui, ammortizando a livello aggregato le fluttuazioni economiche. Un welfare state molto sviluppato, con sussidi di disoccupazione, spesa pensionistica e sanitaria pubblica, tassazione progressiva, implica un importante ruolo per gli stabilizzatori automatici, che assorbono parte delle fluttuazioni cicliche dell’economia senza interventi discrezionali.
Gli estensori del trattato di Maastricht avevano anche altre ragioni per limitare il ruolo della politica macroeconomica, la più importante essendo probabilmente la perdità di credibilità della teoria keynesiana, che all’inizio degli anni ottanta era stata soppiantata dalla controrivoluzione delle “aspettative razionali”. La crisi che stiamo vivendo giustifica molti dei dubbi – condivisibili – che alcuni avevano sull’opportunità di legare le mani alla politica fiscale e monetaria. Resta comunque vero che il quadro istituzionale deciso ta il 1992 e il 1997 era coerente con la libera scelta dei cittadini europei di dotarsi di un sistema di ammortizzatori automatici di dimensioni importanti, cosa che rendeva meno grave l’impossibilità di ricorrere a politiche attive.
Quindi, che il processo democratico si orientasse verso uno stato sociale “leggero” (come negli USA), o “pesante” (come in Europa), la coerenza con le istituzioni di politica economica sembrava essere garantita.
Diciamo “sembrava”, perché in realtà le cose sono andate in modo diverso. I venti anni passati dal trattato di Maastricht hanno visto la prevalenza nelle istituzioni europee di una visione che legava la crescita quasi esclusivamente all’implementazione di “riforme strutturali” volte ad avvicinare l’economia europea al paradigma neoclassico di mercati efficienti e ottimali. Anche la crisi ha potuto ben poco per modificare questo approccio, come testimonia l’ultimo bollettino mensile (marzo 2012) della BCE (ma un qualunque bolletino negli scorsi 13 anni contiene un approccio analogo): “In order to deliver a favourable environment for sustainable growth and to support confidence and competitiveness, the Governing Council stresses the urgent need for governments to make further progress towards restoring sound fi scal positions and implementing the structural reform agenda. [Structural Reforms] increase the adjustment capacity and competitiveness of euro area countries and strengthen growth prospects and job creation. (p. 6)”. Lo stesso spirito pervade la lettera a Commissione e Consiglio Europeo che il Presidente del Consiglio Monti ha recentemente firmato insieme ad altri undici capi di governo, chiedendo più attenzione alla crescita attraverso rinnovata enfasi sulle riforme strutturali. L’ultimo ventennio è stato quindi caratterizzato da una tendenza al ridimensionamento del modello sociale europeo in nome della flessibilità di mercato. Il risultato è stato una lenta ma inesorabile erosione della capacità del sistema di ammortizzare le fluttuazioni tramite gli stabilizzatori automatici (si veda l’articolo recente scritto con Jérôme Creel).
Questo stato di cose porta a due considerazioni. La prima è che un cambiamento strutturale di tale portata dovrebbe essere reso oggetto di scelta democratica da parte dei cittadini europei, anche per stemperare la diffusa percezione di “deficit democratico europeo” che permea le opinioni pubbliche. La seconda è che la coerenza originaria del trattato di Maastricht si è progressivamente attenuata, e quindi che l’Unione Europea che si disegna con il nuovo Trattato ha un vizio strutturale che ne rende il futuro problematico. Da un lato, infatti, si mantiene e si rinforza il rifiuto di attribuire un ruolo attivo alla politica macroeconomica; dall’altro si riduce la capacità del sistema di assorbire le fluttuazioni economiche e i loro effetti, attraverso un ridimensionamento del ruolo di assicurazione fornito dallo stato sociale. Questo mix è incoerente, e lascia i cittadini europei in balia delle fluttuazioni, contando sulle sole virtù taumaturgiche delle riforme strutturali e della flessibilità di mercato per assicurare benessere e stabilità.
In conclusione, l’EMU oggi si trova in mezzo a un guado. Se da un lato ha teso verso una maggiore flessibilità dei mercati (in particolare del lavoro) e un ridimensionamento dello stato sociale, dall’altro non ha incorporato nelle proprie istituzioni e regole di comportamento la flessibilità nell’uso della politica economica che, come negli Stati Uniti, accompagna ed è coerente con tale flessibilità. Sarebbe auspicabile che i nostri leader riuscissero ad avere una visione globale dell’interazione tra istituzioni, tendenze economiche, e regole di governance. Su questa base sarebbe possibile disegnare un sistema effettivamente coerente, e compatibile con le scelte democratiche fatte espressamente dai cittadini. Proprio una fase di crisi come quella attuale può fornire lo stimolo per un simile sforzo intellettuale e politico.