international analysis and commentary

La dichiarazione dei diritti in Internet: il dibattito in corso e il quadro internazionale

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“Una dichiarazione dei diritti in Internet è strumento indispensabile per dare fondamento costituzionale a principi e diritti nella dimensione sovranazionale”.

È da questa affermazione, contenuta nel Preambolo, che può prendere avvio una riflessione sulla portata ed il significato giuridico della Dichiarazione pubblicata il 28 luglio scorso. È un documento che riflette nei suoi quattordici articoli la natura multilivello del Web e – ad eccezione dell’ultimo, dedicato al “Governo della rete” – si concentra sull’individuazione dei diritti che rendono Internet autentico engine of change, strumento di “democrazia continua”, promozione civile e sociale.

Non vi è libertà senza regole, nel mondo online come in quello offline, ma soprattutto senza diritti riconosciuti, garantiti e “interpretati in modo da assicurarne l’effettività nella dimensione della rete” (art. 1.2), agganciati a quello che Stefano Rodotà definisce “un quadro di principi comuni”, in primis quelli ricavabili dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’ONU e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che postula il pieno riconoscimento del diritto di accesso alla rete, considerato diritto della persona (art.2.1), con l’obiettivo di ricondurre la società civile, ormai globale e cibernetica, all’ordine giuridico internazionale e alle regole della democrazia sostanziale.

La Dichiarazione costituisce peraltro strumento giuridico privo di carattere normativo vincolante e forza cogente, che indica piuttosto un modello di riferimento e ha come suo principale destinatario il legislatore, più che il cittadino. In tal senso appare destinata a costituire un importante parametro interpretativo di previsioni vigenti e così fungere da stimolo per Corte costituzionale e giurisprudenza di merito.

Apprezzabile il metodo seguito, un “processo aperto all’arricchimento derivante dal contributo di soggetti” intervenuti nell’ambito di una consultazione pubblica durata cinque mesi e condotta sulla base del riconoscimento che la società dell’informazione costituisce il principale terreno di confronto tra etica e diritto e che per garantire libertà e diritti soltanto un modello “inclusivo” sia davvero rappresentativo e legittimato democraticamente.

Un dibattito ampio e aperto

La relazione tra rete e individuo è un tema quanto mai al centro del dibattito sui “nuovi diritti”, che si collega all’interpretazione dell’art. 2 della Costituzione italiana, intesa ora come fattispecie schiusa all’identificazione delle nuove richieste di tutela della persona provenienti dall’evoluzione sociale, ora come clausola puramente riassuntiva dei diritti esplicitamente enumerati nel testo costituzionale.

Tale querelle è stata recentemente animata da coloro i quali ritengono che non sarebbe corretto descrivere tali diritti come “nuovi”, poiché una mera interpretazione estensiva delle tradizionali garanzie costituzionali (artt. 1, 2, 3, 9, 33 e 34 Cost.) sarebbe sufficiente a ricomprenderli. Peraltro il contenuto del diritto di accesso alla rete viene declinato in modo diverso: ritenuto da alcuni un diritto sociale consistente nell’obbligo, posto a carico dei pubblici poteri, di garantire i mezzi materiali al singolo per accedere alla “banda larga” e alla connessione veloce, da altri un’estrinsecazione del diritto alla neutralità in quanto garanzia dell’accesso ai contenuti online al riparo da interventi del fornitore del servizio o della pubblica autorità. Nel primo caso si potrebbe parlare di un diritto di accesso ai servizi di rete, nel secondo di un diritto di accesso ai contenuti online.

In un editoriale per il New York Times, Vint Cerf, uno dei fondatori della Rete, ha peraltro rilevato che Internet non costituisce un diritto umano di per sé, ma un mezzo per raggiungere un fine, segnalando che “una volta se non si disponeva di un cavallo era difficile guadagnarsi da vivere, ma il diritto in questo caso è quello di guadagnarsi da vivere, non ad un cavallo” (5 gennaio 2012). Dunque Internet come mezzo per l’esercizio dei diritti, non come diritto in sé.

Certamente oggi non avere accesso a Internet significa vedersi precluso l’esercizio di gran parte dei diritti di cittadinanza, e la centralità ed il carattere strumentale del diritto di accesso è sottolineato anche in un rapporto presentato nel maggio 2011 all’Assemblea generale dell’ONU, secondo cui “essendo Internet diventato uno strumento indispensabile per rendere effettivo un gran numero di diritti fondamentali, per combattere la diseguaglianza e per accelerare lo sviluppo e il progresso civile, la garanzia di un accesso universale a Internet deve rappresentare una priorità per tutti gli Stati”.

Alla base di questa riflessione vi è infatti il riconoscimento della presenza di un significativo digital divide fra la popolazione, vale a dire il divario tecnologico fra le diverse generazioni e i contesti economici e sociali. Si tratta di un divide che evidenzia una realtà composta per lo più di analfabeti digitali, per anagrafe o censo, che attualmente non consente alla rete di estendersi con la dovuta uniformità e generalità e  priva così una parte della popolazione degli strumenti per esercitare i diritti e le libertà previste dall’ordinamento e  non è pertanto in condizione di adempiere ai doveri che in modo crescente sono collegati all’utilizzo dello strumento informatico.

Come rileva Clay Schirky, “non si tratta solo di stare connessi, ma di creare esperienze di valore civico” (Surplus cognitivo, 2010).

Al riguardo la Dichiarazione rileva che “Le Istituzioni pubbliche garantiscono i necessari interventi per il superamento di ogni forma di divario digitale […]” (art. 2.5) e con una serie di previsioni si pone l’obiettivo di delineare un assetto giuridico, nazionale ed internazionale, secondo un paradigma che tuteli il diritto di accesso alla rete nella sua dimensione dinamica e, al tempo stesso, ponga limiti ai possibili abusi, per tutelare il diritto fondamentale all’informazione, evitare possibili strumentalizzazioni del flusso di informazioni da parte di terzi, rendere attendibili quelle diffuse senza operare alcun controllo garantendo, insomma la sicurezza in rete come interesse pubblico (art. 13.1).

Il quadro internazionale

A livello internazionale, il rapporto del 2011 di Frank La Rue, speciale Rapporteur sulla promozione e la protezione della libertà d’espressione delle Nazioni Unite, raccomanda agli Stati di valutare la promozione e l’estensione della rete come una priorità nell’agenda politica, in quanto strumento per vigilare sui diritti umani e per affrontare il tema delle disuguaglianze.

Meritevole di menzione è la “Dichiarazione africana sui diritti e le libertà di Internet”, risultato dell’African Internet Governance Forum di Nairobi del 2013. Contiene una serie di principi (Key Principles), indicazioni su come realizzarli (Realising these Principles on the Internet), e si conclude con un invito all’azione rivolto ai diversi stakeholder (Call to action): istituzioni, governi nazionali, organismi internazionali, attori della società civile e media.

Con la riforma del 16 giugno 2013 il Messico ha riconosciuto per tutti i cittadini un diritto di accesso alla banda larga e a Internet, destinato ad essere garantito dallo Stato.

Ma è piuttosto il Brasile, con il Marco Civil, legge statale approvata il 22 aprile 2014, a costituire best practice a livello internazionale. Risultato di una consultazione online  durata diciotto mesi, condotta dal ministero della Giustizia, tale legge traduce  nel mondo online i principi contenuti nella Costituzione, stabilisce i principi per la rete e introduce un meccanismo di partecipazione trasparente e innovativo a livello federale, statale, metropolitano (art. 24), mostrando in concreto come Internet possa diventare strumento di interazione fra pubblico e privato e fattore essenziale di sviluppo economico. Ora in Brasile l’attenzione è concentrata sui regolamenti attuativi del Marco Civil e soprattutto sul progetto di legge in tema di protezione dati ritenuta – a ragione – decisiva per dare concreta ed effettiva attuazione alle previsioni del Marco Civil.

In Finlandia dal 1° luglio 2010 una legge attribuisce lo status giuridico di “diritto legale” all’accesso a Internet per tutti i cittadini del paese. In particolare, il ministero per le Comunicazioni ha rilevato che “una connessione a banda larga di alta qualità a un prezzo ragionevole è un diritto elementare”.

Nel febbraio 2000 il Parlamento di Tallinn ha stabilito con legge il diritto alla connessione per ogni cittadino, facendo dell’Estonia un punto di riferimento a livello internazionale e il 7 aprile 2004 tale diritto è stato elevato al rango costituzionale.

Anche la Grecia, con la riforma costituzionale entrata in vigore il 17 aprile 2001, ha stabilito che “ognuno ha il diritto di partecipare alla società dell’informazione e che lo Stato ha la responsabilità di assistere il progresso della società dell’informazione”.

In senso analogo l’Ecuador, che il 28 settembre 2008 ha “costituzionalizzato” il diritto di accesso a Internet stabilendo che: “tutte le persone, in forma individuale o collettiva, hanno diritto a: l’accesso universale alle tecnologie di informazione e comunicazione […] l’accesso in eguaglianza di condizioni […] a bande libere per lo sfruttamento delle reti senza fili”.

La dimensione europea

Peraltro, già nel 1997 il Consiglio d’Europa (APCE) aveva riconosciuto il potenziale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione con una Risoluzione (1120 (1997) dedicata al loro impatto sulla democrazia, invitando i parlamenti nazionali ad assumere iniziative per  assicurare l’uso più efficace di tali tecnologie a beneficio del pubblico e conciliare il progresso tecnologico con il rispetto dei principi democratici e dei diritti umani.

A livello di Unione europea, l’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali prevede che ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione, inclusa la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenze da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. La Direttiva 2002/22/CE, relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti di comunicazione elettronica (modificata dalla 2009/136/CE) ha reso obbligatorio per tutti gli Stati membri assicurare l’accesso a Internet, pur senza giungere al punto di stabilire che tutti i cittadini dell’Unione debbono beneficiare del relativo diritto. Si limita infatti a obbligare le imprese che forniscono le reti e i servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico ad assicurare la garanzia dell’accesso a Internet.

D’altronde, le istituzioni europee si sono finora astenute dal qualificare in termini di diritto immediatamente azionabile non solo l’accesso al mezzo, ma anche l’accesso ai contenuti veicolati sulla rete.

Si tratta di profili sui quali peraltro l’efficacia di un intervento nazionale appare, evidentemente, alquanto limitata, anche alla luce del “cantiere normativo” aperto, a livello europeo e internazionale, ormai da qualche mese.

Gran parte dei temi trattati nella Dichiarazione dei diritti in Internet sono infatti oggetto dell’ampio e articolato intervento delineato dall’Unione europea lo scorso 6 maggio con le iniziative del Digital Single Market, fra cui la revisione della Direttiva e-Privacy 2002/58, volte a riformare l’attuale quadro regolamentare e ovviare ad un assetto disomogeneo e frammentato a causa dell’inadeguata attuazione a livello nazionale delle varie direttive di armonizzazione.

A ciò si aggiunge, peraltro, il nuovo regolamento in tema di privacy e protezione dati che fra qualche settimana sostituirà la Direttiva 46/95/CEE, ormai datata, ridefinendo, con la forza giuridica di previsioni direttamente applicabili, le regole vigenti in materia nei vari Stati membri. Il regolamento disciplina puntualmente diversi aspetti riguardati dalla Dichiarazione, fra i quali il diritto all’oblio, il diritto alla portabilità dei dati e un maggiore controllo sugli stessi, le modalità di Data Breach Notification e il consenso del titolare dei dati. Contiene previsioni sull’approccio risk-based, in tema di  profilazione degli utenti, Search Result Customization e Big Data, oltre che sulla disciplina del trasferimento transfrontaliero dei dati, strumento essenziale per la tutela dei diritti, da garantirsi mediante regole applicabili al cloud computing oltre che con gli accordi in tema di Safe Harbor. Introduce altresì più accurate regole in tema di  trasparenza, Privacy by Default e Privacy by Design quali misure di salvaguardia volte a garantire che gli individui siano informati in modo facilmente comprensibile su come saranno trattati i loro dati.

Fa parte inoltre del quadro di riferimento normativo in corso di definizione anche la revisione, avviata nel gennaio 2012 e non ancora ultimata, della Convenzione n. 108 del 1981 del Consiglio d’Europa sul trattamento automatizzato dai dati personali, con l’obiettivo di garantire il carattere generale e tecnologicamente neutrale delle sue disposizioni, assicurare coerenza e compatibilità con il quadro giuridico dell’Unione europea e riaffermare il potenziale della Convenzione quale standard universale e aperto, focalizzato sui diritti umani.

Ecco perché sarà soprattutto in base all’efficacia delle citate previsioni, contenute in svariati strumenti normativi per lo più ancora in fieri, stabiliti a livello europeo e internazionale, che si potrà misurare la capacità dell’ordinamento giuridico di garantire concretamente i diritti dei cittadini in rete e così dare compiuta attuazione alla summa di principi contenuta nella Dichiarazione dei diritti in Internet.