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La democrazia romena e le sue fragilità

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Il popolo romeno ha salvato dalla destituzione, per la seconda volta in cinque anni, il presidente della Repubblica Traian Băsescu – a capo dello stato danubiano dal 2004. Gli elettori si sono espressi, in effetti, per l’impeachment del capo dello stato (con la nettissima maggioranza dell’87,5%), ma il quorum che avrebbe reso valido il referendum (il 50% più uno degli aventi diritto) non è stato raggiunto. Il parlamento aveva votato recentemente una mozione che accusava il presidente di violazione della Costituzione per non aver rispettato la separazione dei poteri. L’interim della presidenza era stato assunto da Crin Antonescu, esponente della coalizione di centro-sinistra che sostiene il governo appena insediato, e protagonista del tentativo di destituzione assieme al nuovo premier Viktor Ponta.

In Romania sta avendo luogo uno scontro tra poteri che rischia di minare il fragile sistema democratico del paese, ancora non pienamente consolidatosi a vent’anni dalla caduta di Ceauşescu. La Costituzione del 1991 prevede che il parlamento riunito in seduta comune, nel caso il presidente abbia compiuto gravi atti che violano i dettami costituzionali, possa sospenderlo dall’incarico con una votazione a maggioranza e, dopo consultazione con la Corte costituzionale, che abbia luogo un referendum popolare per disporne la rimozione definitiva (oppure la sua conferma in carica): è proprio ciò che è accaduto negli ultimi mesi.

La crisi istituzionale di Bucarest, formalmente incentrata su un conflitto di competenze, mostra la difficoltà della classe dirigente romena nel misurarsi con l’ordinamento statale post-comunista e il permanente carattere leaderistico della politica nazionale. Questa crisi politico-istituzionale infatti può essere considerata la naturale conseguenza della peculiare transizione romena. La Romania è stata dominata per oltre un ventennio da un solo uomo, Nicolae Ceauşescu, che ha instaurato una dittatura dominata dal culto della personalità e dal patriottismo. Il Conducător e la sua famiglia hanno esercitato un controllo totale su ogni aspetto della vita politica, economica, sociale e culturale, senza lasciare spazio ad alcuna forma di pluralismo, nemmeno all’interno del partito comunista: si è così creato quel distacco tra stato (impersonificato nel leader) e popolazione che ha impedito lo sviluppo di strutture organizzative della società civile capaci di porsi come corpi intermedi.

Le dinamiche consolidatesi durante il regime hanno fatto sì che la rivoluzione violenta che ha caratterizzato il 1989 romeno non avesse come protagonista un’opposizione articolata al regime (molti protagonisti del Fronte di Salvezza Nazionale erano membri del partito comunista cui Ceauşescu non aveva lasciato spazio): il nemico era il Conducător, lui bisognava spodestare. Quale sistema politico-istituzionale dovesse nascere dalla rivoluzione non era un interrogativo percepito come prioritario e fondamentale. Queste condizioni di partenza hanno rallentato la formazione di una cultura politica capace di portare il paese verso la democrazia e l’economica di mercato, favorendo invece il permanere della vecchia nomenklatura e il consolidarsi di sacche di corruzione nell’amministrazione statale.

Băsescu non gode oggi di grande popolarità per le misure di austerità che ha dovuto imporre il governo precedente (conservatore come il presidente) per soddisfare le richieste delle istituzioni internazionali dai cui prestiti la Romania dipende. Coloro che hanno votato per la sua destituzione sono stati, del resto, la schiacciante maggioranza degli elettori che si sono recati alle urne il 29 luglio (46% della popolazione). Le drastiche politiche di rigore adottate dal governo di Emil Boc, tra cui la riduzione degli stipendi, l’aumento dell’Iva e il licenziamento di migliaia di funzionari pubblici, hanno portato a imponenti manifestazioni di piazza sotto la cui pressione il capo del governo ha rassegnato le dimissioni.

Băsescu ha affidato l’incarico di formare un nuovo esecutivo a Ungureanu, conservatore ed ex-direttore dei servizi segreti, che ha resistito al governo poco più di due mesi. A maggio, infatti, l’approvazione della mozione di sfiducia al premier ha portato ad un cambio di maggioranza parlamentare che ha affidato la guida del governo a Viktor Ponta, esponente di una coalizione di centro-sinistra composta dal Partito Socialdemocratico (Psd) in alleanza con i Conservatori (Pc), e sostenuto dai parlamentari liberali e della minoranza magiara. Il premier dovrà ora convivere con Băsescu fino alle elezioni parlamentari previste in autunno.

Ponta, legittimato dal successo nelle elezioni amministrative di giugno, ha intrapreso una campagna di epurazione interna all’amministrazione statale e un aperto conflitto con la Presidenza e la Corte costituzionale, di cui ha fatto approvare una riduzione delle competenze, accusando il massimo organo giudiziario di essere troppo influenzato dall’esecutivo. Una pratica politica e un’ingerenza nel potere giudiziario difficilmente digeribili da parte delle istituzioni comunitarie che ancora sottopongono la Romania, al pari della Bulgaria, a una sorveglianza speciale proprio in materia di giustizia e lotta alla corruzione. E’ stata l’Unione Europea ad ottenere che il referendum, per essere dichiarato valido, avrebbe dovuto presupporre il raggiungimento del quorum della metà dell’elettorato. Un punto, questo, non specificato dalla carta costituzionale romena, ma rettificato dopo l’abolizione della norma secondo cui la votazione sarebbe stata valida solo se avesse votato “sì” la maggioranza assoluta degli elettori – criterio utilizzato per il referendum del 2007. Bruxelles ha poi tenuto a precisare che il verdetto definitivo della Corte costituzionale sul voto andrà rispettato.

Il paese danubiano, dunque, è attraversato da una difficile crisi politica ed economica che rischia di comprometterne la fragile stabilità. La popolazione, infatti, è fortemente delusa per le aspettative tradite dall’apertura al capitalismo. Dopo i primi anni di boom economico, infatti, a partire dal 2008, si è manifestata, complice la crisi mondiale, la debolezza dell’economia nazionale, in recessione dal 2010. Negli ultimi tre anni la disoccupazione, il debito pubblico – passato dal 13% del Pil al 33% – e le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza sono aumentati. Sono diminuiti invece il tasso di crescita (con un drammatico crollo nel 2009: -6,6%) e quello degli investimenti (dal 32% al 23% del 2010).

Il boom del mercato immobiliare iniziato nel 2005-2006 si è trasformato in una bolla e lo sfruttamento delle rimesse degli emigrati è diminuito. Dal punto di vista delle scelte politiche, la spesa sociale è stata distribuita in modo irrazionale, non ci sono stati i necessari investimenti infrastrutturali per potenziare l’economia nazionale e si è ricorso nuovamente all’indebitamento estero, annullando gli immani sacrifici che la popolazione aveva sopportato negli anni ottanta per soddisfare il folle obiettivo autarchico di Ceauşescu: restituire interamente il debito contratto dal paese nei decenni precedenti – obiettivo raggiunto nella primavera del 1989 (nel 1982 ammontava a 10,2 miliardi di dollari) con il paese ridotto in ginocchio.

L’Unione Europea, dunque, non può che seguire con attenzione gli sviluppi del paese danubiano: si teme che la crisi economica causi, nei nuovi stati membri ancora poco stabili sul versante istituzionale, gravi crisi democratiche e derive autoritarie (come avvenuto in Ungheria). C’è il timore, in particolare, che a Bucarest, nelle prossime elezioni autunnali, si impongano formazioni politiche di stampo nazional-populista:anche in Romania, infatti, c’è un partito di estrema destra, il Partito della Grande Romania guidato da Corneliu Vadim Tudor, che pur non avendo superato la soglia di sbarramento nelle elezioni politiche del 2008, a quelle europee del 2009 ha ottenuto l’8,6% dei consensi. Cavalcando il crescente scontento della popolazione per le gravi difficoltà economiche del paese, potrebbe ora tornare ad essere protagonista del panorama politico romeno, come è avvenuto nel 2000 quando ottenne il 19,46% dei voti.