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La coppia franco-tedesca e la grande sfida della crisi

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Tra le novità che l’elezione di François Hollande ha introdotto nell’arena politica continentale c’è senz’altro la volontà di rinegoziare i patti stipulati negli ultimi anni dal direttorio composto da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. Ciò significa rimettere in discussione il nocciolo della strategia economica dell’UE.

Visto che Francia e Germania sono stati gli autentici motori dell’integrazione europea, è quasi inevitabile che il cambiamento di governo o di leadership in uno dei due paesi abbia spesso presupposto la revisione dei rapporti tra le due potenze e, di riflesso, conseguenze importanti sulle istituzioni comunitarie. L’equilibrio tra i due paesi si è tuttavia invertito nel corso dei decenni. La Francia ha assunto la direzione politica dell’integrazione grazie alla condizione di quasi “paria” che caratterizzava la Germania Occidentale ancora negli anni Cinquanta, a partire dalla comunitarizzazione dei sistemi industriali avvenuta in quel decennio. Questo modello di collaborazione paesi trovò il suo coronamento nello storico Trattato dell’Eliseo del 1963, siglato da Charles De Gaulle e Konrad Adenauer, che istituzionalizzò in pratica la direzione franco-tedesca della politica europea.

Se la regia politica della Comunità Europea restò principalmente nelle mani francesi fino agli anni Novanta, lo stesso non si può dire della guida economica. Già a partire dagli anni Settanta era chiaro che il sistema tedesco dettava non solo i ritmi macroeconomici, ma anche le regole finanziarie che gli altri partner dovevano seguire. Regole difese con forza, per tutto il decennio, dai cancellieri Willy Brandt e Helmut Schmidt: solo di fronte a un eccessivo apprezzamento del marco tedesco, proprio Schmidt accettò di negoziare con il collega Valéry Giscard d’Estaing un accordo che diede vita alla creazione del Sistema Monetario Europeo – embrione della moneta unica.

Nonostante la dolorosa rinuncia al deutsche mark conseguente alla riunificazione (1990) e alla nascita dell’euro (1999), la preminenza economica tedesca non ha fatto che rafforzarsi nell’ultimo ventennio. Mentre la Francia di François Mitterrand aveva progettato, in asse con la Commissione presieduta da Jacques Delors, l’architettura della nuova Unione Europea, la Germania di Helmut Kohl riusciva a imporre costosissime (e necessarie) ristrutturazioni economiche ai partner che volevano aderire alla moneta unica. Soprattutto, otteneva che le regole monetariste alla base dell’azione della Bundesbank fossero adottate come pilastri della nuova Banca Centrale Europea.

Parallelamente, la capacità di Parigi di influire sulla politica continentale si riduceva. Il rigetto della cosiddetta “costituzione europea” con il referendum del 2005 evidenziava in Francia non solo il consolidamento di un fronte euroscettico formato dalle forze politiche più estremiste, ma anche la netta divisione sul tema all’interno del partito socialista – Jacques Chirac, schierato a favore del sì, incassava una sonora sconfitta e il peso della Francia a Bruxelles ne usciva affievolito.

Il décrochage (distacco) tra le due economie è oggi evidente, ancor più approfondito dalla crisi in atto – soprattutto in termini di disoccupazione, produttività e debito pubblico. Inoltre, Parigi soffre la perdita del controllo sulla leva dei cambi: l’impossibilità di ricorrere alla svalutazione (come era stato fatto a più riprese negli anni Settanta e Ottanta) ne ha indebolito il settore industriale, mentre quello tedesco al contrario si è ulteriormente consolidato.

La debolezza economica ha fatto sì che emergesse più chiaramente anche una subalternità politica francese. Quello tra Merkel e Sarkozy è stato raramente un rapporto tra pari: la tempistica e le modalità di coordinamento e di intervento sono state decise dalla cancelliera e dalle dinamiche interne al calendario elettorale e parlamentare tedesco. Il contenuto del Fiscal Compact, che non tiene in considerazione nessuna delle principali proposte francesi, riflette l’attuale peso relativo delle due potenze.

La rinegoziazione che Hollande vuole intraprendere non sembra dunque poggiare su basi solide. Il presidente francese può però contare su un certo consenso presso le opinioni pubbliche e i governi dei paesi più indebitati, preoccupati sia per il perdurare della congiuntura negativa nonostante la cura sinora seguita, sia per la prospettiva terrificante di un default greco o spagnolo. L’Eliseo gode anche dell’appoggio della SPD tedesca, oggi col vento in poppa nei sondaggi, e di Barack Obama, che teme la possibilità del contagio derivante da una spaccatura dell’eurozona. Nessun accordo che preveda un ammorbidimento troppo netto dei limiti di spesa, neanche nel caso di una vittoria socialdemocratica in Germania, sarebbe accettabile da Berlino. Le due sinistre a cavallo del Reno potrebbero però accordarsi più facilmente sulla creazione di “project bonds” che finanzino un programma di opere pubbliche europee – un’ipotesi che potrebbe dare respiro agli indicatori economici, pur essendo pesante in termini di debito.

È lecito poi dubitare che Angela Merkel sia disposta a fare troppe rinunce rispetto alla linea fin qui seguita con determinazione, e appoggiata dai propri cittadini proprio nell’anno che precede le elezioni politiche (da tenere nel settembre 2013). Bisogna poi considerare la crescita dell’euroscetticismo nei paesi considerati “falchi” del rigore: è la situazione che vivono Olanda e Finlandia. È improbabile che i governi dell’Aja e di Helsinki offrano un’ulteriore motivo di critica ai partiti xenofobi o antisistema accettando un ammorbidimento del rigorismo oltranzista.

Se la tempesta borsistica non dovesse calmarsi, la Cancelliera potrebbe decidere di sacrificare l’ormai indifendibile Grecia in favore di un impegno più concreto e più efficace nei confronti dell’economia spagnola (dal peso molto maggiore nello scenario continentale). A Hollande, in questo caso, non resterebbe alternativa: la situazione greca, alle condizioni attuali di intervento della Banca Centrale Europea, appare effettivamente insostenibile. La revisione delle linee guida dell’istituto di Francoforte sarebbe comunque possibile solo dopo una riforma complessiva delle istituzioni europee: anche se i fatti confermassero le buone intenzioni espresse dai leader, è un traguardo a cui si arriverebbe solo nel giro di qualche anno.

Dato questo quadro, in un primo momento il nuovo equilibrio dell’asse franco-tedesco non presupporrà un cambiamento profondo dei meccanismi di intervento; è stata soltanto adottata qualche misura di riaggiustamento, dal contenuto però essenzialmente simbolico come hanno già capito i mercati. Per il momento, non sussistono le condizioni per un intervento di diverso tipo. Sarà solo dopo le elezioni politiche tedesche che una revisione più decisa delle strategie di politica economica potrà essere compiuta, da accompagnare alla necessaria ristrutturazione istituzionale che secondo Berlino è la conditio sine qua non per qualsiasi modifica di fondo dei principi delle politiche economiche.