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La crisi nel Mali al punto di svolta: si muove la comunità internazionale

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La crisi nella regione del Sahel, il cui epicentro si trova in Mali, ha scalato posizioni nell’agenda internazionale, e non è più sottovalutata. La recentissima nomina di Romano Prodi da parte di Ban Ki-moon come suo rappresentante nel Sahel è probabilmente un segnale decisivo in tal senso.

In effetti la battaglia che si sta svolgendo nel Sub-Sahara può influenzare i futuri equilibri del continente africano se è vero, come un rapido sguardo alla cartina geografica suggerisce, che chi controllerà il Sahel avrà il vantaggio di una doppia testa di ponte: in direzione del Maghreb e in direzione dell’Africa centroccidentale. Qui spicca naturalmente la Nigeria, il più popoloso stato africano che, a sua volta, è da mesi sotto la costante minaccia di una destabilizzazione islamista. In altre parole, se i fondamentalisti di Ansar Dine – che con il sostegno delle tribù tuareg nel marzo scorso ha preso il controllo del Mali settentrionale ribattezzandolo Azawad – dovessero consolidare il loro potere, sia Aqmi (al Qaeda per il Maghreb) che Boko Haram (la setta nigeriana), acquisirebbero il tassello mancante per il controllo di un’enorme regione che dal Mediterraneo arriva al golfo di Guinea. In tal modo questa finirebbe per gravitare nell’orbita della shari’a.

In questi giorni, nella capitale Bamako si prepara la guerra per la riconquista dell’unità territoriale maliana, dopo la nascita (lo scorso aprile) dello Stato Indipendente dell’Azawad nel nord del paese. Il consiglio di sicurezza dell’ONU sta per dare il via libera ad una risoluzione cha autorizzi la formazione di un contingente dell’ECOWASS (La Comunità Economia degli Stati dell’Africa Occidentale). La Francia, per mezzo del presidente François Hollande ha intanto benedetto l’operazione promettendo appoggio logistico (una formula diplomatica che sottintende un appoggio militare effettivo). Anche gli Stati Uniti non staranno a guardare: attraverso il dipartimento di Stato sono già stati messi a disposizione quasi sette milioni in attrezzature e logistica per l’esercito mauritano mentre dodici milioni sono serviti per equipaggiare quello del Niger. Durante l’estate, advisor americani hanno già coordinato alcune esercitazioni con personale militare di Senegal, Burkina Faso e Gambia.

Le truppe dell’ECOWASS saranno composte, oltre che dal contingente maliano, da quello del Burkina Faso, della Costa d’Avorio e della Nigeria e dovrebbero contare circa tremila uomini. L’intervento panafricano, sollecitato formalmente da una lettera che il presidente maliano ad interim Diocounda Traoré ha inviato al segretario generale dell’ONU, dovrà cercare di sradicare dal nord del Mali Ansar Dine, che ormai controlla diversi capoluoghi tra i quali Timbuctù – dove l’avvento dell’ortodossia islamica ha la grande valenza simbolica di mortificare i trascorsi sincretistici della città che nei secoli ne hanno consacrato la fama di centro dinamico e d’interscambio culturale tra il ceppo afro e il ceppo arabo.

Il nord del Mali è così divenuto il magnete per qualsiasi combattente islamico. In questo senso il fondamentalismo nel Sahel presenta analogie sia con il caso afgano sia con quello somalo. Il Mali, infatti, accoglie oggi esperti terroristi dall’Algeria alla Mauritania, dalla Giordania al Pakistan: è quanto avvenne nei primi anni Ottanta nell’Afghanistan in lotta contro l’occupazione sovietica, il cui territorio fu la terra promessa dei mujaheddin di diverse nazioni o aree geografiche, primo fra tutto il saudita Osama Bin Laden. L’Afghanistan è stato l’incubatore di un fenomeno che, a distanza di oltre tre decenni, non è ancora sconfitto, e rende l’analogia con il teatro maliano potenzialmente molto sinistra.

Il modello afgano tuttavia non regge più quando si passa a considerare la morfologia del territorio e quindi la strategia di guerra: dalle montagne dell’Uruzgan si è infatti passati alle piatte distese del Sahara. Certo il territorio rimane ostile a chi, fatta eccezione per i tuareg, non sia abituato a vivere e combattere a quelle latitudini, ma la gestione del potere e le forme di lotta sono radicalmente diverse. Come in Somalia abbiamo assistito all’esperienza parcellizzata delle corti islamiche, nel Sahel operano oggi diverse formazioni, alcune delle quali tendono poi a fondersi in nuove sigle, con oscillazioni nella catena di comando che non mutano il segno islamista della dominazione territoriale, ma rendono i potenziali bersagli bellici più difficili da individuare. Una frammentazione che addirittura costringe gli interlocutori occidentali a ipotizzare alleanze con forze sino a ieri “nemiche”, in una continua rincorsa per decifrare le reali intenzioni degli attori in campo. Il quadro dell’Azawad (uno Stato auto-proclamato da pochi mesi e ad oggi non riconosciuto internazionalmente)  comprende attualmente, per quanto è dato capire: l’MNLA (la forza laica autonomista di matrice tuareg), Ansar Dine (forza islamista e maliana), l’AQMI (di matrice algerina ma ramificata in tutto il Maghreb e il Sahel),  e infine MUJAO (gli islamisti mauritani).

I miliziani di queste sigle hanno anche sviluppato un’efficace azione di spionaggio nei paesi limitrofi al Mali, che ha permesso, grazie a significative infiltrazioni, di estendere la minaccia a istituzioni, comunità e rappresentati occidentali. In Niger, sei cittadini francesi sono stati rapiti e trasferiti nel Nord del Mali (che fu anche la prigione dell’italiana Rossella Urru, rapita in Algeria). Gli islamisti hanno minacciato l’esecuzione degli ostaggi se le truppe dell’ECOWASS dovessero muovere guerra verso Timbuctù. In Burkina Faso, verso la fine di settembre i servizi di sicurezza hanno ammesso ufficialmente che AQMI è riuscita a infiltrarsi con successo in molti quartieri della capitale Ouagadougou, e pianifica attentati e rapimenti. Non avendo un piano di evacuazione, il Burkina Faso ha consigliato ufficiosamente agli occidentali presenti nel paese di partire quanto prima. Il Burkina, nonostante si fosse offerto come paese mediatore della crisi, paga agli occhi degli islamisti per la sua disponibilità a offrire truppe alla spedizione militare e la concessione delle proprie basi aree per alcune operazioni speciali d’intelligence sotto guida statunitense (che sembrano chiaramente preludere a un più vasto intervento militare). Situazioni analoghe si registrano comunque anche in Niger, Costa d’Avorio e nel nord della Nigeria.

Su questo sfondo regionale, la comunità internazionale ha fatto ora mosse importanti: il Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki-moon, ha girato la richiesta d’aiuti di Traoré al Consiglio di Sicurezza e ha nominato un rappresentante speciale nella persona di Romano Prodi. Il presidente francese Hollande, sempre da New York, ha dichiarato che la guerra non dovrà essere questione di mesi ma di settimane. Le truppe a Bamako sono ormai pronte e nessuno scommette più sulla sola opzione politica.