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La Banca Centrale Europea tra nuovi strumenti e vecchi limiti

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Il nuovo programma OMTs (Outright Monetary Transactions) della Banca Centrale Europea è pronto a partire, dopo essere stato annunciato il 6 settembre scorso.

Si tratta di un programma di acquisti illimitati, sul mercato secondario, di titoli sovrani di paesi che ne facciano richiesta e che siano disponibili a sottoporsi a condizioni piuttosto stringenti (su austerità, attuazione di riforme strutturali, e così via), da attuare sotto il controllo della Troika (FMI-BCE-Commissione). La mossa della BCE è controversa: Mario Draghi ha certamente fatto ricorso ad un’interpretazione estensiva del mandato della banca, giustificando la decisione di intervenire con la necessità di preservare la stabilità dell’euro minacciata dagli spread elevati e dal rischio di contagio. Ed è lecito chiedersi se debba spettare ad una istituzione tecnocratica, e non ad istanze politiche, la decisione se salvare o meno l’euro e soprattutto i suoi membri più deboli. Queste critiche sembrano però ingiustificate: la BCE si è trovata costretta ad inserirsi nello spazio lasciato desolatamente vuoto dal potere politico, per evitare che fosse definitivamente occupato dalla speculazione con effetti economici e sociali disastrosi.

È interessante soffermarsi sulle discussioni suscitate dell’annuncio di Mario Draghi, che denotano una certa confusione. In particolare, Wolfgang Münchau sul Financial Times ha espresso il timore che l’OMTs non venga mai utilizzato, perché i governi dei paesi interessati non saranno incentivati a mettersi sotto la tutela della Troika. Münchau conclude dunque che l’OMTs rischia di essere inefficace nel rilanciare l’economia. Egli sostiene quindi che la BCE avrebbe dovuto fare come la Fed, e annunciare un programma incondizionato di acquisto di obbligazioni (private e pubbliche). Questa analisi è perfettamente corretta nella sua proposizione principale: OMTs non ha nulla a che fare con un programma di espansione monetaria (o quantitative easing), e la condizionalità imposta per accedere agli aiuti non ha senso. Una banca centrale che voglia sostenere la crescita dovrebbe fornire liquidità al sistema attraverso operazioni di mercato aperto e tagli dei tassi aggressivi (anche se i margini per farlo sono esigui, come conferma la decisione del 4 ottobre di lasciarli inalterati).

L’opinionista del Financial Times manca il bersaglio, tuttavia, quando teme che OMTs sarà inefficace perché i governi non lo utilizzeranno. Egli sembra confondere il ruolo di prestatore di ultima istanza e il ruolo di stabilizzazione macroeconomica della politica monetaria; i due ruoli possono essere legati, ma rimangono distinti. Il compito di un prestatore di ultima istanza è quello di assicurare il debito (in questo caso il debito pubblico), al fine di convincere i mercati della solvibilità dei governi, e quindi di disinnescare la speculazione: la banca centrale si impegna ad acquistare titoli di Stato in quantità illimitate, in modo da rassicurare i mercati che ci sia sempre un acquirente per il debito che detengono in portafoglio. Il successo di un prestatore di ultima istanza non è quindi misurato dal numero di paesi (o banche) che hanno bisogno di farvi ricorso, ma piuttosto dal contrario. Se nessun paese ha bisogno di aiuto della BCE, questo significa che il suo ruolo di assicuratore è credibile, e che quindi i mercati rinunciano a portare attacchi speculativi. L’efficacia di un prestatore di ultima istanza è misurata dai tassi di interesse di mercato, che sono effettivamente diminuiti dopo l’annuncio di Mario Draghi, per poi ri-aumentare in seguito ai disordini in Grecia e Spagna, e alla ormai abituale cacofonia che li ha accompagnati.

Il problema dell’OMTs è in effetti la condizionalità, ma non perché potrebbe spingere i governi a non chiedere aiuto – come detto, questo sarebbe il segno che la BCE è efficace. La condizionalità è invece un problema perché porterebbe ad ulteriore austerità e, quindi, ostacolerebbe la crescita (e la sostenibilità del debito a lungo termine).

Per valutare il successo di una banca centrale nel sostenere la crescita, invece, occorre valutare se l’incremento di liquidità fornita ai mercati si traduce in condizioni creditizie migliori, e se questo a sua volta spinge al rialzo la spesa privata. Ha ragione Münchau ad affermare che la BCE non fa abbastanza per sostenere la crescita della zona euro, ma resta importante distinguere chiaramente tra i diversi compiti di una banca centrale, anche al fine di essere più efficaci nella critica.

Vale la pena peraltro di notare che oggi, per rilanciare l’economia, dovrebbe essere preferita la politica fiscale, visto che l’economia europea rimane stretta in una cosiddetta “trappola della liquidità” (una situazione in cui la fiducia nella crescita futura è talmente bassa che, nonostante tassi di interesse nominali vicini allo zero imprese e famiglie preferiscono detenere moneta e non consumare o investire) per cui il meccanismo di trasmissione della politica monetaria è non è perfettamente funzionante. Tuttavia, Paul Krugman, tra gli altri, ha spiegato bene perché, anche in situazioni di trappola della liquidità, un’espansione monetaria potrebbe funzionare agendo sulle aspettative di inflazione. Proprio in un contesto del genere,

 sarebbe auspicabile che (come la Fed) la BCE assumesse sia il ruolo di prestatore di ultima istanza che il compito di sostenere la crescita attraverso un’espansione monetaria. Ma purtroppo, oggi questo non è all’ordine del giorno: la BCE non sostiene la crescita della zona euro, in parte perché il suo mandato è limitato al solo obiettivo di inflazione (un vincolo che andrebbe superato con la massima urgenza). Ma, ancora più importante, perché non vuole farlo: da questa prospettiva, la BCE e il suo presidente sono intrappolati nell’ortodossia che avvolge l’Europa dagli anni ottanta, cioè quella della stabilità come fine in sé. L’idea sottostante è che la crescita dipende solo ed esclusivamente da fattori d’offerta, per cui il solo motore della prosperità presente e futura risiede nelle riforme strutturali. Questa visione dicotomica, per cui le politiche di sostegno alla domanda hanno nel migliore dei casi solo effetti nel breve periodo, ha portato ad una governance basata sui vincoli alle politiche macroeconomiche (il patto di stabilità prima e il fiscal compact oggi), e all’enfasi continua sull’austerità come sola politica pubblica possibile.

In realtà, domanda e offerta, breve e lungo periodo, sono legati da una serie intricata di fattori. Basti pensare agli effetti della crisi sulle scelte di istruzione e sugli investimenti in formazione, che a loro volta hanno un impatto sulla capacità futura dell’economia di crescere. Una volta abbandonata la dicotomia che caratterizza l’ortodossia in cui siamo avvolti, si capisce che una crescita bilanciata può essere ottenuta solo prestando uguale attenzione alle riforme strutturali e al sostegno della domanda.

Sarebbe auspicabile che le istituzioni e i leader europei superassero una visione semplicista e dicotomica che deriva da modelli economici tanto sofisticati quanto limitati nelle loro ipotesi di partenza. Questo consentirebbe di utlizzare, tanto nelle politiche economiche che nel disegnare l’architettura istituzionale dell’Unione Europea, l’intero arsenale a nostra disposizione, e di ottenere la crescita che da troppo tempo latita mediante un sapiente mix di politiche di sostegno alla domanda e all’offerta.

Questa, quando avverrà, sarà la vera svolta per la governance dell’economia europea.