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La crisi dell’euro vista da Washington, Intervista a Charles A. Kupchan

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La prima crisi dell’euro ha spinto Barack Obama a intervenire direttamente con Angela Merkel: la preoccupazione di Washington era che la lentezza della risposta europea avrebbe messo a rischio i segnali di ripresa anche negli Stati Uniti. Sono circolate, come si sa, tesi del tutto diverse, secondo cui esisterebbe un interesse americano a “liberarsi” dell’euro. In realtà, a Washington è prevalsa l’idea che il tracollo dell’eurozona avrebbe potuto produrre una seconda crisi globale dei mercati finanziari, con un effetto contagio in direzione inversa rispetto al 2008: non dagli Stati Uniti all’Europa, ma dall’Europa agli Stati Uniti. Come possiamo allora descrivere l’atteggiamento degli Stati Uniti rispetto alla crisi greca e alle difficoltà dell’euro? Soltanto una preoccupazione diplomatica, oppure anche paura, delusione e forse una certa frustrazione verso le indecisioni europee? E cosa potrà significare, tutto questo, per il futuro dei rapporti transatlantici?

Charles A. Kupchan: La mia impressione è che l’Europa alla fine abbia agito con coraggio rispetto alla crisi greca, e che i mercati nel complesso ne abbiano tratto beneficio – anche se ovviamente restano mille incertezze sul futuro. Certo, i tempi di reazione sono stati più lunghi del dovuto, e i leader europei non sembrano aver compreso subito la gravità della crisi. Questa è una lezione per il futuro. È altrettanto vero che è stata necessaria anche una forte pressione americana per spingere l’Europa ad agire. Quindi è innegabile che c’è preoccupazione a Washington per la capacità europea di fare il salto di qualità che sarebbe indispensabile per diventare un attore davvero coeso e coerente. Stiamo inoltre osservando una ri-nazionalizzazione di molte politiche in vari paesi-chiave. Vedremo cosa cambierà con la coalizione fra conservatori e liberal-democratici in Gran Bretagna.

Ma partirei da un dato più generale: Obama è un presidente quasi spietatamente pragmatico quando si tratta di valutare le partnership internazionali. È certamente meno sentimentale dei suoi predecessori rispetto al rapporto transatlantico, e dunque chiede agli europei quale contributo tangibile essi possano dare. Le aspettative esagerate del dopo-Bush lasciavano pensare che gli europei avrebbero fatto molto di più in Afghanistan e altrove, ma questa era davvero un’illusione. Guardando al Trattato di Lisbona, la percezione a Washington è stata che potesse rappresentare un salto di qualità. Il contesto politico americano è favorevole in questo senso, visto che per la prima volta dalla seconda guerra mondiale c’è oggi un consenso bipartisan sul fatto che un’Europa forte e coesa sia realmente negli interessi degli Stati Uniti. In altri termini: l’America un alleato forte, non debole.

La delusione nasce dal constatare che Lisbona non fa la differenza, nonostante il suo potenziale: l’Europa è di nuovo in crisi e questa volta nel “cuore” del suo progetto, l’unione economica e monetaria.

Ha parlato di ri-nazionalizzazione e di debolezza dei governi in carica. È un ragionamento che include il paese chiave, la Germania?

Esattamente, questo vale per la Germania: sarebbe difficile spiegare l’atteggiamento di Angela Merkel di fronte alla crisi greca senza tenere conto della fragilità della coalizione e della scadenza elettorale nel Nord-RenoWestfalia. Ma è una scadenza che ha segnato comunque una brutta sconfitta per la Cancelliera. Lo stesso è accaduto in Francia, dove Sarkozy è stato pesantemente battuto alle regionali in tutto il paese. Lo stesso governo di coalizione britannico non sarà certo un esecutivo forte. L’Italia, in un certo senso, ha fatto eccezione. Ma resta il punto essenziale: le riserve di forza politica scarseggiano in Europa.

Non è però possibile che Obama possa trovarsi in buona sintonia con la strana coppia Cameron-Clegg, per ragioni generazionali molto più che ideologiche? In fondo, le tradizionali categorie ideologiche e partitiche appaiono superate da tempo, e in effetti Cameron e Clegg si presentano come un mix peculiare: una nuova ricetta politica, in qualche modo “centrista”.

È molto interessante ragionare proprio in termini di centro del sistema politico, perché gli Stati Uniti e l’Europa mi sembrano andare in direzioni opposte: il centro dello spettro politico americano si è svuotato negli ultimi anni mentre i due grandi partiti si sono spostati verso gli estremi; al contrario, in Europa destra e sinistra si stanno avvicinando. Guardiamo alle elezioni che si sono appena svolte in America per scegliere una serie di candidature parlamentari: hanno perso sia i candidati centristi democratici che quelli repubblicani. Hanno vinto una serie di candidati anti-establishment, fra cui quelli del “Tea Party”.

Quanto a Obama e Cameron, nonostante una qualche sintonia generazionale, credo che nel complesso la “special relationship” sia destinata a diventare assai meno speciale. Questo dipende da fattori strutturali, legati ai nuovi equilibri globali: la Gran Bretagna potrà anche restare un partner molto vicino ma non ha più lo stesso peso di una volta per la politica estera americana. Il problema è che lo stesso vale per l’Europa nel suo insieme: ecco perché stiamo attraversando una fase di aggiustamento e perché la partnership transatlantica non sarà più quella del passato.

È così che si spiega anche la decisione di Obama di non partecipare al summit UE-USA di Madrid? L’intenzione era di lanciare un segnale chiaro sulla fine dei summit “cerimoniali”?

Parte della spiegazione è più semplice e riguarda la volontà del presidente di ridurre gli impegni all’estero per concentrarsi sulle questioni di politica interna. Ma è plausibile che Obama abbia anche ritenuto di avere di fronte dei leader europei senza sufficiente autorità, mentre le istituzioni di Bruxelles non sono in grado di centralizzare la politica estera. Troppi europei e poca Europa, in altri termini. In fondo, un segnale di maggiore serietà verrebbe se il summit si tenesse proprio a Bruxelles, e direttamente con i rappresentanti dell’Unione europea in quanto tale.

Tornando a un altro aspetto del quadro interno americano, questa polarizzazione dei due grandi partiti sta creando uno spazio al centro che qualche personaggio, ad esempio Michael Bloomberg, potrebbe alla fine riuscire a occupare? È possibile immaginare un terzo partito di ispirazione centrista?

Storicamente, partiti di questo tipo hanno avuto ben poca fortuna negli Stati Uniti, e non credo che oggi la situazione sia molto diversa. Mi sembra più probabile che il sistema politico viva semplicemente senza un vero centro, e semmai oscilli anche piuttosto repentinamente. A conferma di questa tendenza, le previsioni più accreditate sono positive per i Repubblicani nelle elezioni di mid term del prossimo novembre: ciò potrebbe produrre un congresso a maggioranza repubblicana e dunque difficoltà ancora maggiori di governo per l’amministrazione. Non solo a causa dei numeri in sé, ma anche del fatto che il partito repubblicano sta perdendo tutte le componenti moderate.

Polarizzazione, quindi. Ma in che modo queste tendenze interne potranno incidere sulla competizione globale? Perché in effetti la competizione non è solo economica; è anche competizione fra sistemi politici. E le democrazie sembrano in difficoltà, rispetto ad autocrazie che riescono, come la Cina, a basare ancora la propria legittimità su forti tassi di crescita economica. Uno dei risultati della crisi del 2008, è stato proprio questo: il rafforzamento relativo di sistemi non occidentali.

Certo non è casuale che gli Stati Uniti soffrano di questa polarizzazione quasi strutturale e al tempo stesso l’Europa sia politicamente così debole. Probabilmente la globalizzazione gioca un ruolo in tutto ciò, come anche i fattori demografici. Vedo una generale debolezza dell’occidente democratico rispetto ai sistemi non democratici, che dovremmo probabilmente definire “autocrazie capitaliste”. Il nostro assunto di fondo è sempre stato che le democrazie avrebbero prevalso su qualsiasi altro regime politico proprio in termini di efficienza e di performance. Ma ora che raggiungere il consenso nei sistemi democratici sembra diventare più difficile, dobbiamo rivedere le nostre convinzioni. Le tesi alla Fukuyama o alla Kagan sulla convergenza quasi inevitabile tra i sistemi politici mi sembrano decisamente in crisi, e mi aspetto invece nei prossimi anni una maggiore diversificazione tra modelli di gestione della politica e dell’economia. Ci sarà ancora un Washington consensus, ma emergerà anche un Beijing consensus, un Delhi consensus, un Brasilian consensus etc. In sostanza, il sistema occidentale non è più l’unico paradigma della modernità, e questa sarà la questione centrale dei prossimi decenni. L’unico modo, per l’Europa, di mantenere un ruolo rilevante sarà di agire come Unione Europea: solo il suo peso aggregato le può dare una forza contrattuale sufficiente. Se la crisi greca sarà servito a farlo capire, sarà stata – alla fine – una crisi salutare.

Guardando ai grandi trend mondiali, vediamo soprattutto il “fattore Cina” un po’ dappertutto, ma anche un fattore Russia. Ci sono due interpretazioni principali: secondo la prima dovremmo pensare a un “occidente più Russia” in chiave di bilanciamento della Cina; secondo la tesi alternativa gli Stati Uniti dovrebbero muoversi verso il G2, cioè una vera relazione speciale con Pechino.

Io ritengo che l’occidente non vorrà controbilanciare la Cina, anche se sono convinto che la Russia dovrebbe comunque entrare a far parte della comunità euro-atlantica e in particolare della NATO – ma lo penso per ragioni legate anzitutto alla sicurezza europea e all’utilità di ancorare Mosca fermamente all’occidente. L’assetto mondiale non mi sembra andare verso una contrapposizione tra l’occidente allargato e la Cina in piena ascesa, e nemmeno verso un rapporto quasi esclusivo tra Washington e Pechino. Sarà invece un assetto molto più politicamente diversificato e davvero multipolare. Al suo interno vedremo rapporti stretti e diretti tra la UE e la Cina, ad esempio, e vedremo fenomeni di regionalizzazione, in Asia settentrionale come in Asia centrale, in Africa come in America Latina. Un mondo meno globale e più regionale, insomma.

In un quadro del genere, la UE rimane ovviamente uno snodo importante, ma come struttura di coordinamento piuttosto che come area strettamente integrata.

Ma questa crisi europea può fare da catalizzatore per un passaggio decisivo, in un senso o nell’altro? Ovvero un vero collasso dell’eurozona oppure più coordinamento nel campo della governance economica?

Credo che ci saranno dei veri passi avanti, ma nel settore del commercio e della finanza. Dove sono meno ottimista è nel campo della politica estera e di sicurezza, perché gli ostacoli sono molto seri. Francamente non mi aspetto progressi significativi in tempi brevi, e dobbiamo semmai ragionare in termini di un decennio circa. Per un’Europa federale sul modello degli Stati Uniti vedo troppe eredità storiche, troppe differenze culturali e ormai troppa diversificazione politica ed economica a seguito degli allargamenti. Tra l’altro sono stato tra i fautori dell’allargamento ad Est, e credo tuttora che fosse la scelta giusta, ma è innegabile che ha avuto un costo perché i paesi di recente adesione non sono disposti – almeno non ancora – a rinunciare a troppi elementi della propria sovranità nazionale. In sostanza, un’Europa a 12 potrebbe oggi spingersi verso un pieno federalismo, ma per la UE a 27 questo non è possibile.

Sotto la pressione della crisi greca, la Germania sembra sentire la forte tentazione di tornare al concetto della “KernEuropa” di alcuni anni fa, cioè una sorta di nocciolo duro dell’integrazione. Ha ancora senso questa impostazione ed è realistica nelle condizioni di oggi?

È esattamente la strada che si è sperimentata, con qualche successo, nel settore della sicurezza e della difesa. In termini generali la logica dei noccioli duri è impeccabile: alcuni paesi-membri hanno la volontà e le capacità per muoversi più rapidamente degli altri. Il problema è creare le condizioni, politiche ma anche istituzionali e organizzative, perché questa operazione sia possibile e consenta davvero una “reazione rapida” ad eventi che per loro natura tendono ad essere gravi e in parte imprevisti.

Further reading
Moneta in crisi, leader lenti e divisi: l’Europa che fa paura all’America, Marta Dassù, Corriere della Sera, 24 maggio 2010 
Un’Europa forte per Obama è utile – intervista a Marta Dassù, l’Unità, 27 maggio 2010
Indirizzo di saluto del Presidente Napolitano alla Joint Leadership Meeting presieduta dalla Speaker Nancy Pelosi, Washington, 26 maggio 2010