Se saranno davvero Stati Uniti e Cina le due super potenze contrapposte a determinare gli equilibri geopolitici del futuro, sarà chiaro solo negli anni a venire. Pur in presenza di un mondo multipolare, il gap militare e tecnologico che separa Washington e i suoi alleati dal resto del pianeta è ancora troppo ampio e difficilmente colmabile in tempi brevi.
Ma nel frattempo Pechino non resta a guardare e punta ad accrescere la propria influenza anche attraverso una corsa agli armamenti che passa per lo sviluppo delle tecnologie belliche più avanzate. Tra queste gli unmanned aerial vehicle (UAV), i cosiddetti droni, cioè i sistemi aeromobili a pilotaggio remoto che rivoluzioneranno regole e modi della competizione militare.
A settembre scorso fu il New York Times a informare come per due anni un gruppo di hacker vicino all’esercito cinese, la cosiddetta Comment Crew, avesse preso di mira almeno venti aziende americane del settore della difesa: l’intento era di appropriarsi della tecnologia che consente agli Stati Uniti di essere leader mondiale nel settore dei droni ad uso militare. Il quotidiano statunitense ricostruì l’attività dei pirati cibernetici in base a quanto rivelato da un’azienda americana di sicurezza informatica che aveva monitorato gli attacchi. Un’offensiva che uno dei dirigenti del colosso della sicurezza digitale FireEye, Darien Kindlund, definì l’azione più vasta mai vista fino ad allora.
Questo episodio si somma alle rivelazioni dell’agenzia di stampa Bloomberg, secondo cui nel periodo compreso tra l’inizio del 2008 e la fine del 2010, gli hacker cinesi avrebbero violato una delle grandi società americane della Difesa, la QinetiQ: l’azienda produce satelliti spia, droni e software usati dagli Stati Uniti in Afghanistan.
L’obiettivo, anche in questo caso, fu quello di ritagliarsi un posto in prima fila nella produzione di velivoli senza pilota, finalizzata non solo all’utilizzo interno, ma anche all’esportazione.
La Cina lavora alla costruzione di una propria flotta di UAV già da qualche anno. Risale al 2006 la presentazione all’esposizione aeronautica di Zhuhai dei primi cinque modelli. E da allora sono numerosi i passi avanti fatti dai centri di ricerca di Pechino, che nei mesi scorsi ha diffuso le immagini di due prototipi simili in tutto e per tutto ai modelli USA più all’avanguardia.
Sono molti gli analisti che addebitano questo improvviso “salto” tecnologico proprio a un’appropriazione indebita di informazioni attraverso attacchi hacker; tale flotta in continua espansione non è ancora all’altezza di operazioni di attacco e spionaggio su vasta scala, ma possiede standard già elevati per alcuni compiti di ricognizione e monitoraggio.
Un esempio si è avuto quando il 9 settembre scorso due caccia F-15J/DJ delle forze aeree giapponesi, decollati da Okinawa sulle isole contese Senkaku/Diaoyu, hanno intercettato sul vicino stretto di Miyako un velivolo teleguidato cinese, un BUAA BZK-005. Una presenza che si unisce alla crescente presenza di mezzi aerei tradizionale e navali cinesi in quell’area.
Sui numeri di tale fenomeno, come spesso accade quando si parla di Cina, regna l’opacità. Le forze armate cinesi non hanno mai precisato l’entità della loro flotta di droni; secondo un rapporto della Difesa di Taiwan, a metà del 2011 solo la sola aeronautica cinese poteva contare su oltre 280 velivoli senza pilota, oltre alle ancora più numerose unità a disposizione delle altre forze armate, stando a quanto riferito da vari analisti specializzati. Pechino è quindi seconda solo agli Stati Uniti, che ne conta circa 7.000.
A cosa serviranno i droni cinesi? È assai probabile che verranno impiegati, prima ancora che in eventuali aree di crisi internazionali, per sorvegliare e predisporre potenziali interventi all’interno del territorio cinesi – soprattutto in aree di difficile controllo in cui permangono situazioni di tensione, come la regione dello Xinjiang e il Tibet. Potrebbe essere solo l’inizio di una tendenza molto più ampia che vedrà la Cina incrementare la propria capacità di monitoraggio del Mar Cinese orientale e del Pacifico occidentale, oltre le Filippine, ma anche le sue capacità operative a salvaguardia della “sovranità marittima”. Un uso molto diverso da quello fatto sinora dagli Stati Uniti, che hanno impiegato i droni soprattutto in funzione antiterroristica in Paesi come Pakistan e Afghanistan.
Un rapporto diffuso nel 2012 dalla Defense Science Board, un comitato consultivo del Pentagono, definisce “allarmante” la valenza militare delle mosse cinesi nel settore dei sistemi senza pilota.
È in base a una valutazione analoga che Washington sta espandendo le proprie capacità e quelle dei paesi alleati in Asia, potenziando appunto la loro dotazione di sistemi aeromobili a pilotaggio remoto. Da quest’anno i droni statunitensi, oltre che nella base di Andersen a Guam, potranno essere dispiegati in Giappone, probabilmente nella base di Okinawa, per operazioni di sorveglianza. Si tratterà di due o tre unità Global Hawk, alle quali saranno affiancati aerei per il pattugliamento marittimo P-8.
L’obiettivo principale delle attività di monitoraggio è ufficialmente la Corea del Nord. Tuttavia la presenza di aerei comandati a distanza sui cieli dell’Asia nordorientale è da considerare l’ennesima mossa di contenimento della Cina messa in atto dall’amministrazione Obama nell’ambito del cosiddetto Pivot to Asia, il riposizionamento strategico e militare di Washington nella regione.