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La conferma elettorale per Erdoğan e l’AKP, in attesa delle presidenziali

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Le elezioni amministrative del 30 marzo 2014 in Turchia erano viste come un test fondamentale sulla tenuta di Erdoğan e del suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), anche in vista delle presidenziali di agosto. A rendere difficile la posizione del primo ministro erano state diverse situazioni molto delicate in rapida sequenza: le proteste di Gezi Parki dello scorso anno e la loro dura repressione; le inchieste sulla corruzione che nei mesi scorsi hanno coinvolto alti esponenti del governo; e le più recenti vicende legate alle intercettazioni del primo ministro e alla sua reazione, con il blocco dell’accesso a YouTube e Twitter. Inoltre, vi era stata la dissociazione dal governo di importanti fazioni, a partire da quella legata al predicatore Fethullah Gülen e al suo movimento Hizmet, che potevano far presagire uno sfaldamento del blocco sociale che aveva tradizionalmente sostenuto Erdoğan.

I risultati smentiscono queste previsioni: l’AKP emerge infatti come il netto vincitore delle elezioni amministrative, conquistando il 45% del voto complessivo (secondo i risultati non ancora ufficiali dell’agenzia governativa Anadolu, contestati tuttavia da altri conteggi), contro il 38,8% ottenuto nel 2009. Soprattutto, il partito di governo mantiene le due principali metropoli, Istanbul e Ankara, sulle quali l’opposizione puntava molto per il loro valore simbolico. Inoltre, in nessuna area della Turchia il partito registra flessioni significative, dal che si può desumere che le diverse componenti del suo elettorato, dalle masse della metropoli, alla piccola imprenditoria anatolica, alle popolazioni delle aree meno sviluppate dell’est, si siano mantenute fedeli a Erdoğan.

Questi dati sono ancora più significativi se si considera che il partito del primo ministro è oggi l’unica formazione politica capace di raccogliere consensi in tutto il paese. Il resto dei voti, invece, si concentra su partiti diversi nelle diverse aree: sui kemalisti del Partito Nazionale del Popolo (CHP) a Izmir, in Tracia orientale e in buona parte della costa ovest; sui curdi del Partito della Pace e della Democrazia (BDP) nel sud-est; e sugli ultranazionalisti del Partito di Azione Nazionalista (MHP) ad Adana e in altre province. Il CHP, pur essendo percentualmente il secondo partito con quasi il 28% (quasi cinque punti in più rispetto al 2009), non solo è virtualmente assente nelle aree curde del sud-est (dove spesso non riesce a superare l’1%), ma ottiene risultati molto scarsi in numerose altre province appannaggio dell’AKP o del MHP. Quest’ultimo deve a sua volta fare i conti con risultati solo parzialmente soddisfacenti, dal momento che conferma il 15% del 2009 e il controllo di Adana, la quinta città del paese; ma, ancor più del CHP, fatica ad avere una consistenza in tutte le aree della Turchia. Un discorso a parte, infine, va fatto per il partito curdo BDP, che conferma il proprio controllo di buona parte del sud-est (incalzato tuttavia dall’AKP) e un 4-5% su base nazionale.

Un altro dato interessante di queste consultazioni è il drenaggio di voti dai piccoli partiti rispetto al 2009, che spiega anche l’aumento percentuale di AKP e CHP. Questa tendenza colpisce tutte le formazioni minori, dagli islamisti del SP, ai socialdemocratici del SDP ai conservatori del DP: tutti hanno visto almeno dimezzare i propri voti rispetto al 2009, scomparendo virtualmente dal quadro politico e non conquistando centri di rilievo. Una tendenza particolarmente significativa considerando che le amministrative – al contrario delle politiche, in cui vige una soglia di sbarramento del 10% – dovrebbero incoraggiare la dispersione del voto. Probabilmente si tratta di un altro segnale della polarizzazione che ha caratterizzato queste elezioni.

Infine – anche se il dato non è nuovo per la Turchia – va notata la minima percentuale di candidati e di eletti di sesso femminile: una caratteristica che accomuna tutti gli schieramenti.

Nel complesso, si deve interpretare il voto come una conferma della fiducia a Erdoğan da parte del paese? La risposta dipende dalla prospettiva adottata. Da un lato è vero che i risultati dimostrano lo scarso impatto sulla “Turchia profonda” delle proteste e delle repressioni di Gezi, e dello scandalo intercettazioni: probabilmente solo una crisi economica significativa potrebbe far cambiare idea allo zoccolo duro che sostiene l’AKP e il primo ministro. In questi termini il risultato è sicuramente una vittoria per Erdoğan. D’altra parte, in termini puramente numerici, si nota anche che l’AKP ha perso circa cinque punti percentuali rispetto alle politiche del 2011 (in cui aveva toccato il massimo storico) e che la vittoria di Ankara è stata molto risicata (anche a causa della scarsa popolarità personale del sindaco Gökçek, in carica da vent’anni), a fronte di un’ampia affermazione cinque anni fa. Troppo poco per far parlare di crisi, ma sicuramente un campanello di allarme.

Per la vittoria di Erdoğan è stata determinante ancora una volta la mancanza di un’alternativa credibile, sia nell’AKP (dove finora nessun esponente di primo piano ha osato sfidare apertamente il primo ministro, anche nei momenti più critici), sia soprattutto nell’opposizione. La possibilità che Erdoğan sia sconfitto nelle presidenziali di agosto – se deciderà di candidarsi – dipende quindi da quanto si tratterà di un’elezione effettivamente competitiva (contro una figura alternativa del campo islamo-democratico, magari il presidente Gül, o contro una figura che rappresenti buona parte dell’opposizione), piuttosto che un altro referendum sulla popolarità del primo ministro.

Resta poi da vedere che conseguenza avranno questi risultati sul clima politico nell’immediato: se, cioè, contribuiranno ad allentare la tensione tra il primo ministro e i suoi oppositori, o ad esacerbarla ulteriormente. Anche durante il voto vi sono stati segnali preoccupanti: dagli scontri nei seggi, con diversi morti, nell’est del paese, agli assembramenti sotto le sedi dei giornali del movimento Hizmet, avversario del governo, dopo la chiusura delle urne. Il discorso del primo ministro subito dopo il voto (dai toni piuttosto aggressivi), e le minacce di contestare la regolarità del voto da parte dell’opposizione, non sembrano promettere serenità e riconciliazione.

L’unica cosa certa è che da oggi l’idea di un Erdoğan politicamente agonizzante, ridotto ai colpi di cosa – che fino a ieri andava per la maggiore – sarà più difficilmente proponibile.