Il voto del 14 dicembre in Giappone è stato sostanzialmente un referendum sulla “Abenomics”. La politica estera e di sicurezza è rimasta in disparte, perché sia il partito del Premier Abe Shinzo, sia la principale forza di opposizione, il Partito democratico DPJ, hanno ben poco da guadagnare dall’accendere i riflettori su una materia che si intreccia con il dibattito circa l’opportunità o meno di emendare la Costituzione del 1947. Questo infatti per il DPJ è portatore di ulteriori dubbi e ambiguità che lo condannano ad un ruolo marginale. Per Abe è l’origine di un pericoloso scollamento tra il suo Partito liberaldemocratico LDP e il Komeito, partner debole della coalizione di governo ma essenziale per raggiungere la maggioranza di due terzi in Parlamento. Ma la questione costituzionale in politica estera prefigura una ancor più grave frattura tra l’anima profonda del LDP, pervasa da un nazionalismo nostalgico insofferente della subordinazione culturale e politica agli USA, e il suo stesso elettorato, ostile invece all’abbandono di un pacifismo forse imposto dall’alto ma divenuto fattore identitario del Giappone.
Abe è stato spesso indicato come un nazionalista intransigente, legato agli ambienti di estrema destra propugnatori di una “educazione patriottica” con venature militaristiche. Ma per quanto il suo approccio abbia effettivamente un sostrato ideologico, a guidarlo è innanzitutto il pragmatismo. Segue, in questo comportamento, l’esempio di molti suoi predecessori, compreso il nonno Kishi Nobosuke, che fu Primo Ministro negli anni Cinquanta e negoziò con Dwight D. Eisenhower quel Trattato di difesa che è ancora alla base dei rapporti tra Giappone e USA. Abe è certamente un falco, ma cauto, come ha scritto Foreign Affairs, interessato a ricercare spazi di manovra non per promuovere la propria visione del mondo, bensì per garantirsi la sopravvivenza politica. In sostanza a dettare l’agenda di politica estera del governo è in primo luogo l’evoluzione dell’ambiente strategico circostante.
Cambiamenti insomma ci sono stati e non sono da escludere per il futuro, ma più che una scelta sono una risposta a scelte di altri. Il successo o meno allora deriva dal tasso di resilienza insito nella politica estera di Abe, e i fatti sembrano dimostrare che tale tasso è inversamente proporzionale alla quantità di condizionamenti ideologici.
Non sempre Abe ha saputo resistere alle tentazioni ideologiche. La visita alla fine del 2013 allo Yasukuni Jinja (dove sono onorati i soldati caduti per difendere la patria, compresi criminali di guerra di classe A) ha provocato tensioni – e rampogne da parte americana – da cui il Paese non ha tratto alcun beneficio. Lo stesso testardo revisionismo storico, a partire dalla polemica sempre più accesa sulle comfort women coreane, è una battaglia perdente e controproducente nell’ambito di una politica che persegue obiettivi di stabilità.
Ammantate di ideologia, ovvero di intransigente nazionalismo, anche le rivendicazioni territoriali diventano un boomerang. Se è comprensibile – e inseribile nella complessiva politica nei confronti di Pechino – la difesa delle Senkaku dalle pretese cinesi, lo è poco o affatto l’irredentismo sullo scoglio di Takeshima (Dokdo), che sta avvelenando i rapporti con Seul, naturale alleato contro Cina e Corea del Nord, spinto a fare fronte comune con Pechino in nome dei condivisi sentimenti antinipponici. Altrettanto controproducente appare un approccio rigido verso la Russia: è incompatibile con la scelta strategica di creare con Mosca una partnership per controllare da Nord la Cina e nel contempo tuffarsi nell’Eldorado siberiano l’incapacità di accettare compromessi ragionevoli, come proposto dai russi, sui “Territori del Nord”. Cinque incontri in meno di due anni tra Abe e il Presidente Vladimir Putin non sono bastati a sbloccare la situazione. E poi la crisi ucraina, costringendo Tokyo a seguire la linea antirussa di Washington, ha portato a un congelamento dei rapporti con il Cremlino ed anzi ha dato il via a un opposto avvicinamento tra Mosca e Pechino.
L’ideologia pesa anche, in modo diretto e indiretto, sui rapporti con Pyongyang. È il vero nemico, da controllare militarmente e da cui ci si aspettano minacce e provocazioni. Sarebbe ovvio uno stretto coordinamento con Washington e Seul, dentro e fuori il gruppo negoziale a sei sul nucleare nordcoreano. Ma i pessimi rapporti con la Corea del Sud lo impediscono. Così si vede solo un disordinato movimento diplomatico. Abe da un lato ha chiesto – e ottenuto nei giorni scorsi – che il leader nordcoreano Kim Jong-un sia deferito al Tribunale Penale Internazionale per Crimini contro l’Umanità. Dall’altro gli dà credito fino ad ammorbidire le sanzioni nella speranza, rivelatasi vana, di ottenere informazioni sui giapponesi rapiti da agenti nordcoreani.
Tutto questo costituisce un fattore di distorsione della politica estera, ma non la base di essa. Circa la ricerca di un maggior peso internazionale, che ne costituisce il fulcro, Abe si è mosso con attenzione, pur limitandosi spesso ad approfondire una linea già tracciata dai governi a guida DPJ. Ha lasciato il segno lanciando lo slogan del “pacifismo attivo” come alternativa al pacifismo passivo fin qui perseguito, aumentando le spese militari, istituendo un Consiglio per la Sicurezza Nazionale, modificando le linee guida della cooperazione con Washington. Ha poi cambiato la legge che proibiva l’esportazione di armi. Soprattutto ha fornito una nuova “interpretazione” dell’articolo 9 della Costituzione, rendendo legale la “autodifesa collettiva”, colonna portante della proiezione di potenza cui il Giappone ora aspira, senza affrontare la vexata quaestio della riforma costituzionale. Così ha evitato di imporre forzature dal sapore ideologico e, lasciando inalterata la Costituzione secondo gli auspici di Washington, ha consolidato il caposaldo della sua politica estera: il rilancio dell’alleanza con gli USA.
La scelta filoamericana non era scontata dopo le ambiguità dei governi DPJ. Richiedeva anche prese di posizione costose economicamente e militarmente: acconsentire alla richiesta americana di un maggiore impegno internazionale; dare fiducia al Presidente Barack Obama malgrado i timori, molto diffusi in Giappone, che la nuova amministrazione americana puntasse tutto sul “G2” con Pechino e che il Pivot to Asia fosse un puro esercizio di retorica; continuare a considerare l’ombrello americano il pilastro della difesa nazionale contro eventuali aggressioni, senza dare credito all’estrema destra, che chiedeva invece di procedere da soli, magari dotandosi di armi atomiche. La scelta di Abe appare vincente malgrado il neo rappresentato dall’irrisolto problema dello spostamento della base di Futenma, a Okinawa. Conferisce inoltre un particolare significato alla impronta anticinese che il Premier ha dato alla sua politica di sicurezza sulla spinta della crisi delle Senkaku, peraltro scoppiata nel 2010 e già incancrenitasi prima del suo arrivo al potere (passo decisivo in tal senso fu la nazionalizzazione di tre isolotti dell’arcipelago decisa nel settembre 2012 dal governo di Noda Yoshihiko). In sostanza la centralità dei legami con Washington e il loro rafforzamento – sancito anche dall’impegno americano a intervenire in difesa del Giappone in caso di un attacco cinese alle isole contese – smorzano il profilo anti-cinese delle scelte di Tokyo. In pratica le subordinano a una triangolazione più complessa, in cui il Pivot to Asia, se da un lato irrita la Cina configurandosi come un tentativo di contenimento della sua influenza nell’area, dall’altro, proprio perché ha questo scopo, rassicura il Giappone e ne modera le istanze nazionalistiche e autonomistiche, foriere di pericolose tensioni.
È per questo che la politica “cinese” di Abe ha il suo cardine proprio nell’alleanza con gli Stati Uniti, sebbene poi si dipani lungo altri due binari: le relazioni economiche e la presenza (non solo economica) nei Paesi dell’Asia Orientale. Su entrambi i punti Abe può vantare buoni risultati. Malgrado le torbide relazioni politiche, la Cina è il principale partner commerciale del Giappone e l’interdipendenza tra i due colossi asiatici è un dato incontrovertibile. Quanto all’espansione dell’influenza nipponica sul continente, in aperta competizione con la Cina, i risultati sono incoraggianti sia nel blocco ASEAN, con Filippine e Vietnam in primo piano, sia in Mongolia, con la quale è in corso di definizione una Free Trade Area. Abe però guarda anche più lontano, verso l’India di Narendra Modi, e qui il bilancio è più problematico. La recente visita a Tokyo del neo Premier indiano è stata presentata come un grande successo, ma New Delhi è ben lungi dall’avere scelto il Giappone come interlocutore privilegiato.
Dunque, qui come sugli altri dossier internazionali, resta ancora molto lavoro da fare dopo la netta vittoria elettorale che può rilanciare le ambizioni di Abe.