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La Cina vista dall’Australia: i vantaggi economici offuscano il quadro generale?

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Il 21 agosto gli australiani si sono recati alle urne per eleggere il nuovo governo. L’esito delle elezioni è rimasto incerto per diversi giorni, perché né il partito laburista né la coalizione liberale/nazionalista erano riusciti ad ottenere la maggioranza assoluta, e sono stati costretti a negoziare con altri eletti per poter formare una maggioranza di governo. L’unica cosa che non è mai stata in discussione è la politica che il nuovo governo seguirà nei confronti della Cina. Sia i laburisti che i liberali/nazionalisti, infatti, hanno la stessa visione dei rapporti con Pechino e del significato della sua ascesa per l’Asia in generale e l’Australia in particolare. Questa visione comune – generalmente positiva e ottimistica – è peraltro condivisa dalla maggior parte degli australiani. Certo, vi sono alcuni falchi che sospettano delle intenzioni di Pechino, al pari dei loro simili americani: non si fidano di un regime non-democratico e di un modello economico estraneo ai principii dell’ortodossia di mercato. La maggior parte degli australiani, però, vede la crescita della Cina non come una minaccia ma piuttosto come un’opportunità dalla quale il loro paese ha molto da guadagnare. Questo ampio settore dell’opinione pubblica sembra avere esercitato un’influenza decisiva nel definire la linea d’azione di Canberra nei confronti di Pechino.

La crescita australiana, agganciata a quella cinese
Per comprendere le percezioni che gli australiani hanno della Cina, in primo luogo è necessario esaminare le relazioni economiche tra i due paesi. Nella seconda metà del XX secolo, il baricentro delle relazioni commerciali e finanziarie dell’Australia si è spostato dall’Europa e dagli Stati Uniti verso l’Asia orientale. Il Giappone è stato il partner commerciale più importante per la maggior parte degli anni Novanta e del primo decennio del XXI secolo. La situazione è cambiata nel 2009, quando la Cina è divenuta il maggiore partner commerciale dell’Australia. Gli scambi con il gigante asiatico rappresentano ormai quasi il 20% del totale dell’interscambio commerciale del paese. Questo dato non è destinato a cambiare nel breve periodo: anzi, la percentuale dovrebbe continuare a crescere, facendo dell’evoluzione futura dell’economia cinese un elemento cruciale di cui le aziende australiane dovranno tenere sempre più conto.

Pochi paesi hanno beneficiato quanto l’Australia della crescita esponenziale dell’economia cinese degli ultimi venti anni. Ricca di materie prime e di molti minerali, tra cui ferro e carbone, l’Australia è uno dei principali fornitori di risorse naturali della Cina. Questo ha alimentato la forte crescita economica di cui il “paese fortunato” gode fin dal 1992: neanche la crisi finanziaria di questi anni, infatti, ha arrestato l’impressionante performance dell’economia australiana, uno dei pochi paesi sviluppati ad essere scampato alla recessione. Come ha affermato la società di ricerca IBISWorld, a proteggere l’Australia dagli effetti della crisi c’è stata una “muraglia cinese”. Il pacchetto di stimolo economico realizzato da Pechino ha permesso alle aziende australiane di evitare il peggio della recessione, mantenendo la disoccupazione sotto il 6%.

Se si prendono in considerazione i benefici procurati dal boom economico della Cina, non sorprende che la maggioranza degli australiani non percepisca il gigante asiatico come una minaccia diretta. Il contributo del settore minerario al PIL del paese è quasi raddoppiato nel corso degli ultimi quindici anni, creando posti di lavoro ben retribuiti nelle regioni periferiche del paese, mentre i tagli nel settore manifatturiero erano iniziati ben prima che la Cina diventasse un gigante delle esportazioni tessili. Di conseguenza, non si è avuta una reazione contro l’esternalizzazione della produzione in Cina come quella che sta oggi dilagando in alcune regioni degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. E dal momento che l’agricoltura australiana non è stata danneggiata dalla crescita cinese, non esiste nel paese un significativo bacino elettorale che sia ostile al crescente potere economico della Cina in Asia.

Il timore del colonialismo economico
Ma tutto questo è vero fino in fondo? Nel 2009 vi è stato un incidente che ha mostrato come l’atteggiamento positivo degli australiani verso il peso economico della Cina abbia i suoi limiti: il tentativo della cinese Chinalco di aumentare la propria partecipazione nel colosso minerario australiano Rio Tinto ha suscitato un’aspra reazione. Il consiglio di amministrazione di Rio Tinto aveva accolto con favore l’investimento cinese, ma la forte opposizione politica ha impedito la conclusione dell’affare. A guidare la resistenza è stato il senatore conservatore Barnaby Joyce, che ha sostenuto che si doveva impedire che un’azienda a proprietà statale diventasse azionista di maggioranza di una compagnia australiana. Preoccupati del presunto potere che anonimi funzionari del partito comunista cinese avrebbero potuto esercitare sull’economia del paese, molti australiani hanno invocato un maggiore controllo sugli investimenti cinesi nel paese. Il tentativo di Pechino di aumentare la propria partecipazione in Rio Tinto sembra aver suscitato il timore che una azienda privata australiana finisse per agire nell’interesse dell’economia cinese piuttosto che dei suoi azionisti.

L’affaire Rio Tinto va però contestualizzato. Non è da ieri che l’Australia teme di finire sotto il controllo economico di un altro paese. All’inizio del XX secolo, le aziende britanniche vennero accusate di tentare di minare l’indipendenza australiana comprandosi il paese all’ingrosso. Dopo la seconda guerra mondiale toccò alle aziende americane finire nel mirino, accusate di muoversi in sintonia con la strategia della Casa Bianca per trasformare l’Australia in un altro stato a stelle e strisce. Negli anni Settanta, il bersaglio preferito dei nazionalisti economici di Canberra sono state le grandi compagnie giapponesi, con l’accusa di essere in combutta con i leader politici di Tokyo per rilevare le aziende australiane. Oggi è il turno delle imprese statali cinesi e del governo di Pechino di essere additati come minaccia per l’indipendenza economica del paese. Tuttavia, l’acquisizione della Felix Resources di Brisbane da parte di Yanzhou Coal Mining pochi mesi dopo l’affaire Rio Tinto suggerisce che quest’ultimo sia stato un problema isolato, piuttosto che il segnale di una tendenza generale.

Una minaccia per la sicurezza? Non per gli australiani, almeno per il momento
Se la percezione australiana del crescente potere economico cinese è generalmente positiva, qual è la percezione dell’ascesa militare e politica di Pechino? Dopo tutto, una delle principali preoccupazioni dei paesi asiatici riguarda non tanto il peso economico della Cina, quanto piuttosto il fatto che i leader del partito comunista possano essere tentati di ricorrere alla forza per influenzare la politica regionale e risolvere le controversie. Questo timore era più evidente negli anni Novanta, quando la Cina è arrivata a mobilitare le forze armate in risposta al processo di democratizzazione di Taiwan e alla disputa sulla sovranità su alcune aree ricche di risorse naturali del Mare Cinese meridionale. Tuttavia, anche se l’influenza dei sostenitori della ‘minaccia cinese’ si è affievolita, le preoccupazioni circa i presunti piani segreti di Pechino per conquistare il dominio sull’intera regione non sono scomparse. Il dibattito sugli obiettivi reali della politica estera cinese ha lasciato il segno anche in Australia.

Il rafforzamento militare di Pechino è una delle minacce più agitate dagli avversari del crescente ruolo della Cina negli affari mondiali. In breve, molti in Occidente e non pochi in Oriente ritengono che la spesa militare sempre più elevata della Cina – che secondo il SIPRI ha portato il paese al secondo posto nel mondo – può significare soltanto che i leader cinesi si stiano preparando alla guerra, se questa fosse necessaria per salvaguardare gli interessi economici o territoriali del paese. Secondo questa scuola di pensiero, l’Esercito di Liberazione del Popolo è un potente strumento che un giorno potrà essere usato dal partito comunista per esercitare il proprio potere oltre i confini cinesi.

Le élites australiane, per la maggior parte, non sembrano condividere questa valutazione negativa dell’ascesa militare della Cina. Il primo ministro conservatore John Howard, in carica per tredici anni fino al 2007, non ha mai criticato il rafforzamento militare cinese, né ha chiesto all’Unione Europea di mantenere l’embargo sulla vendita di armi a Pechino. Il suo successore, il laburista Kevin Rudd, è stato più ambiguo nei confronti dell’ascesa militare del gigante asiatico, ma la sua preoccupazione principale riguardava più la mancanza di trasparenza dell’Esercito di Liberazione del Popolo che i modi di un eventuale impiego della sua potenza militare. Anche i diplomatici australiani in Asia orientale hanno generalmente un approccio rilassato al rafforzamento militare cinese.

Ci sono però segnali che la percezione australiana potrebbe stare cambiando. Il Libro Bianco della Difesa pubblicato nel maggio 2009 sostiene che la modernizzazione militare della Cina potrebbe essere un “motivo di preoccupazione” per i suoi vicini. Riecheggiando le preoccupazioni del ministero della Difesa, il Lowy Institute di Sydney ha pubblicato all’inizio di quest’anno i risultati di un sondaggio secondo il quale il 46% degli australiani pensa che sia abbastanza o molto probabile che la Cina diventi una minaccia militare per il loro paese nei prossimi vent’anni. Gli analisti del Lowy Institute ritengono che questa percentuale relativamente alta sia il risultato di una serie di fattori concomitanti: il Libro Bianco della Difesa, l’affaire Rio Tinto e le recenti schermaglie diplomatiche tra i due paesi suscitate da alcuni episodi, come l’arresto del dirigente di una compagnia mineraria australiana in Cina, la visita di un leader uiguro in Australia e le proteste che hanno accompagnato il passaggio della torcia olimpica a Canberra. Questi incidenti possono avere fatto drizzare le antenne a molti australiani rispetto alla presunta assertività cinese e alle sue possibili conseguenze per l’Australia.

Una politica estera pragmatica
Anche il soft power della Cina – cioè la promozione del cosiddetto ‘modello cinese’, una commistione tra economia di mercato e forma di governo non democratica – è una minaccia agli occhi di chi diffida dell’ascesa cinese. In Australia, tuttavia, il modello cinese non è la preoccupazione principale: data la posizione geografica del paese, gli australiani sono abituati ad avere a che fare con regimi autoritari, come Vietnam, Cambogia e Myanmar. L’Indonesia, a lungo considerata da molti australiani come la minaccia principale per la sicurezza, ha tenuto le prime elezioni presidenziali libere solo nel 2004. I diplomatici di Canberra in Asia orientale non considerano la promozione della democrazia e dei diritti umani uno dei principi fondamentali della politica estera del loro paese; hanno piuttosto un approccio pragmatico che privilegia le considerazioni economiche e di sicurezza. Pertanto, il modello cinese non li preoccupa particolarmente.

Tuttavia, le cose cambiano leggermente quando entrano in gioco gli interessi economici. Le economie asiatiche sono obiettivi evidenti delle aziende australiane, e la Cina non fa eccezione. Quando la politica e l’economia si intrecciano, gli australiani tendono a chiedere maggiori garanzie sotto il profilo della certezza del diritto e della trasparenza. Tuttavia, è interessante notare che i leader politici ed economici australiani sono molto meno critici del modo in cui Pechino gestisce la propria economia rispetto ai loro colleghi statunitensi ed europei. Grazie all’esperienza accumulata nelle relazioni con vari paesi caratterizzati da una evidente sovrapposizione tra politica ed economia, gli australiani sono meno propensi a salire in cattedra per cantare le lodi del libero mercato. Si può dire che anche quando si trovano a fare i conti con i possibili effetti negativi del modello cinese, gli australiani tendano ad aggirarli piuttosto che a denunciarli.

Stati Uniti-Australia, un’alleanza traballante
L’Australia e gli Stati Uniti sono formalmente alleati dai tempi della firma dell’ANZUS (Australia, New Zealand, United States Security Treaty) nel settembre del 1951, ma i loro legami di sicurezza e militari sono antecedenti al patto: gli Stati Uniti hanno aiutato l’Australia a difendersi dal Giappone durante la seconda guerra mondiale. Dal 1985 si tengono incontri bilaterali annuali tra il ministro degli Esteri australiano e il segretario di Stato americano. Washington considera la sua alleanza con Canberra una delle pietre miliari della sua politica di sicurezza nella regione dell’Asia-Pacifico. Pertanto, l’ascesa della Cina e le sue implicazioni per l’alleanza tra Australia e Stati Uniti sono una questione cruciale a Canberra come a Washington e a Pechino.

In effetti, sono sempre più evidenti i segnali che l’ascesa della Cina stia spingendo gli australiani a riesaminare seriamente il loro rapporto con gli Stati Uniti. Canberra ha un atteggiamento ambiguo rispetto alla clausola dell’ANZUS secondo cui un attacco contro una delle parti deve essere considerato come un attacco contro gli altri firmatari del patto. In questo senso, la decisione di John Howard di inviare truppe in Iraq per contribuire alla campagna militare guidata dagli americani ha segnato una svolta: ma molti australiani hanno fortemente criticato la decisione del governo di schierarsi a fianco dell’amministrazione Bush in una guerra che ritenevano non necessaria. Quella decisione ha fortemente indebolito il consenso nel paese all’alleanza con gli Stati Uniti.

Facendosi interprete dello stato d’animo della nazione, nell’agosto 2004 il ministro degli Esteri Alexander Downer ha lasciato intendere che in caso di guerra tra Cina e Taiwan, l’Australia non si schiererebbe necessariamente al fianco degli Stati Uniti. John Howard ha anche sostenuto che Canberra non si sente costretta a prendere per forza le parti di Pechino o di Washington nelle questioni in cui le due grandi potenze siano in contrasto. L’amministrazione di Kevin Rudd ha fatto un altro passo verso lo svincolamento dall’alleanza con gli Stati Uniti: il Libro Bianco della Difesa del 2009 sostiene che l’Australia non dovrebbe appoggiare militarmente gli Stati Uniti quando i suoi interessi nazionali non siano in gioco. Il documento solleva anche dubbi sul futuro della supremazia americana nella regione Asia-Pacifico, mettendo in evidenza come un qualche mutamento dei rapporti di forza regionali potrebbe incidere sull’impegno di Washington a difendere l’Australia.

In effetti, negli ultimi venti anni Canberra ha promosso l’integrazione regionale asiatica con l’obiettivo, tra l’altro, di contribuire a consolidare i legami tra Cina e Stati Uniti. Così il primo ministro Bob Hawke nel gennaio 1989 ha lanciato un appello alla cooperazione economica nella regione Asia-Pacifico, che si è tradotto nella creazione dell’APEC. L’Australia è stata anche il primo paese ad avanzare la proposta di un quadro di sicurezza multilaterale per la regione, che nel 1994 ha preso la forma del Forum regionale dell’ASEAN. Più di recente, Kevin Rudd ha proposto la creazione di una Comunità della regione Asia-Pacifico, cioè un forum onnicomprensivo nel cui ambito affrontare le grandi questioni politiche, economiche e di sicurezza. Tutte queste iniziative hanno un obiettivo comune: far sedere Pechino e Washington allo stesso tavolo per allentare eventuali tensioni tra loro e permettere così a Canberra di non dover scegliere tra il suo principale partner commerciale e il suo più importante alleato militare.

Verso il futuro: un’Australia sempre più amica della Cina
La percezione australiana dell’ascesa della Cina è in generale più positiva di quella della maggior parte delle nazioni sviluppate. Un sondaggio dell’opinione pubblica internazionale condotto dal Pew Research Center nel 2008 ha mostrato che la percentuale degli australiani che avevano una percezione favorevole della Cina e dei cinesi era superiore a quella registrata tra gli americani, gli europei, i giapponesi e i sudcoreani. Quasi tre quarti degli australiani considerano l’ascesa economica della Cina uno sviluppo positivo per il proprio paese, secondo il sondaggio del 2010 del Lowy Institute. E anche il fatto che molti vedano la Cina come una potenziale minaccia militare sembra più un fenomeno temporaneo, imputabile alle tensioni diplomatiche degli ultimi due anni, che una tendenza di lungo termine. La politica ventennale di Canberra tesa alla promozione della cooperazione nella regione Asia-Pacifico con l’obiettivo di coinvolgere Pechino negli affari regionali sembra confermare questa ipotesi.

Gli australiani manterranno anche in futuro questo atteggiamento benevolo nei confronti della Cina? Tre fattori indicano di sì. Il più importante è che i legami economici tra i due paesi sono destinati a svilupparsi ulteriormente, permettendo alle aziende e ai lavoratori australiani di beneficiare sempre di più della crescita di quella che è recentemente divenuta la seconda economia del mondo. E vista la previsione di uno sviluppo delle sinergie tra l’economia cinese e quella australiana, è improbabile che nel “paese fortunato” si verifichi una forte reazione di protesta contro la delocalizzazione in Cina.

Inoltre, i cambiamenti demografici stanno avvicinando l’Australia ai paesi asiatici e la stanno allontanando dalle sue radici anglosassoni. Dal censimento del 2006 è emerso che gli australiani di origini cinesi erano il settimo gruppo etnico del paese e – sulla base delle attuali tendenze migratorie – diventeranno molto presto il quinto. Ciò significa che un numero crescente di australiani avrà origini cinesi oppure frequenterà la scuola e l’università con coetanei cinesi. Se queste tendenze proseguiranno, gli immigrati cinesi diventeranno presto il primo e il secondo gruppo di popolazione nata all’estero in città come Sydney e Melbourne. Dai dati raccolti risulta che gli australiani che crescono insieme a connazionali di origine cinese sono meno timorosi dell’ascesa di Pechino.

Infine, sono sempre più numerosi gli australiani che sperimentano in prima persona la vita in Cina. Molti giovani, e anche dirigenti e manager, vanno per qualche anno a studiare o lavorare a Pechino, Hong Kong, Shanghai o altre città cinesi, come un tempo andavano a Londra o New York. Chi fa queste esperienze ha in genere una migliore comprensione della Cina ed è meno critico verso le sue politiche. Molti finiranno per assumere posizioni di responsabilità nel governo australiano, nel settore pubblico, nelle imprese private e nel mondo accademico, e questo molto probabilmente andrà a vantaggio delle relazioni sino-australiane.

In breve, al di fuori dell’immediato vicinato della Cina l’Australia è uno dei paesi che capisce meglio la Cina e i cinesi. Proprio per questo gli australiani hanno in genere un atteggiamento positivo nei confronti dell’ascesa di Pechino. Certo, i vantaggi economici giocano un ruolo essenziale nel rafforzare questo giudizio ottimistico, ma altrettanto importanti sono un approccio pragmatico e una buona comprensione di come funziona la Cina.

 

Vedi: Aspenia 50: la Cina post-americana, Ottobre 2010