international analysis and commentary

L’11 settembre visto dalla stampa tedesca

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Il decennale degli eventi dell’11 settembre 2001 ha occupato in Germania nelle ultime settimane molto spazio sulla televisione pubblica e soprattutto sulla stampa nazionale. Accanto a ricostruzioni televisive più o meno “spettacolarizzate”, non sono mancate sui principali quotidiani e settimanali (Frankfurter Allegemeine Zeitung, Süddeutsche Zeitung, die Welt, der Tagesspiegel, die Tageszeitung, die Zeit, der Spiegel) analisi ed approfondimenti che hanno messo in luce gli orientamenti della stampa tedesca sugli attentati alle torri gemelle e sulle loro conseguenze.

Tre le dimensioni di analisi privilegiate: i mutati assetti delle relazioni internazionali, le conseguenze degli attentati sulla politica nazionale, e gli effetti socio-culturali rispetto alla presenza islamica in Germania.

Sul primo versante, con poche differenze tra le varie testate, la stampa tedesca evidenzia la fine dell’unipolarismo statunitense, il crescente isolamento (Entfremdung) degli Stati Uniti nei rapporti con le potenze occidentali europee dopo la decisione dell’intervento in Iraq, il fallimento della strategia di esportazione della democrazia. La FAZ, attraverso la penna di Dieter Frankenberger il 4 settembre, lascia poco spazio a dubbi interpretativi: “Il distacco politico-culturale nelle relazioni con i partner europei della coalizione è stato, più di un decennio dopo la fine della guerra fredda, evidente e innegabile. Solo con l’avvento di Obama si è avuta una sorta di riconciliazione […] Rimane lo sgradevole sentimento che il secolo della lotta al terrorismo cominciato con l’11 settembre 2001 e finito con l’uccisione del leader di al Qaeda, rappresenti per gli Stati Uniti un decennio perduto. Il momento unipolare e il dispiego imperialista di forze sono finiti nelle sabbie desertiche irachene e nelle gole dell’Hindu Kush. L’America ha fortemente sfruttato la sua forza militare, forse spingendola troppo oltre. Un mondo multipolare è oggi una realtà politica molto più di dieci anni fa”.

Altrettanto chiara l’analisi di Jakob Augstein su Der Spiegel, secondo il quale, dieci anni dopo l’11 settembre, ci sono solo perdenti. “Gli Stati Uniti si sarebbero dovuti fermare con l’espulsione di al Qaeda dall’Afghanistan, e non trasformare la guerra al terrore in una guerra mondiale ideologica”. Con le conseguenze di un “tragico malinteso”, evidenziato sempre dal settimanale amburghese (Gregor P. Schmitz): che in primo piano oggi non sarebbero più le vittime degli attentati, ma gli errori e le colpe degli Stati Uniti. Errori che la superpotenza paga, oltre che nei rapporti con i paesi europei, nel discredito statunitense all’interno dei paesi arabo-musulmani. Senza considerare “l’ironia della storia”, evidenziata ancora da FAZ, rappresentata dagli eventi della primavera araba: la possibilità cioè di rovesciare regimi non democratici senza il ricorso all’esportazione bellicosa della democrazia.

Anche il successo rappresentato dall’uccisione di bin Laden, e dall’indebolimento della rete organizzativa di al Qaeda, sottolineato sia da settimanali come Die Zeit, sia da testate di sinistra come Tageszeitung, aprirebbe scenari problematici relativi alla difficoltà di controllare le azioni di una nuova generazione di singoli attentatori: “lupi solitari” non più attivi nei classici territori di caccia di al Qaeda, e radicalizzati attraverso una mobilitazione via internet (Intervista a Eric Schmitt, TAZ 7/09/2011).

Le interviste ai politici ospitate nelle colonne di FAZ e Die Welt offrono al lettore ulteriori elementi critici. La dichiarazione di “illimitata solidarietà” dell’allora Cancelliere Schröder agli Stati Uniti all’indomani degli attentati viene rivendicata sia da Otto Schily, allora ministro dell’Interno, intervistato da Die Welt, sia da Frank Walter Steinmeier, allora a capo degli uffici della Cancelleria e coordinatore dei servizi segreti, intervistato da FAZ. Nelle parole di entrambi, l’impegno statunitense nella seconda guerra mondiale per la sconfitta del totalitarismo e il sacrificio delle vite di tanti americani furono alla base della dichiarazioni di Schröder e del successivo impegno tedesco nella guerra afgana. Un impegno rivendicato anche dall’attuale ministro della Difesa de Mazière, intervistato da Die Zeit ma che, nella reticenza dell’allora governo rosso-verde a definire “guerra” l’intervento in Afghanistan, evidenzia la presenza di luci e ombre. Le luci ricordate da Steinmeier derivanti dal crollo del Muro di Berlino e dalla fine della guerra fredda, con la riacquisizione da parte della Germania di uno status di potenza legittimata a prendere posizioni più autonome sullo scenario internazionale; ma anche le ombre sottolineate da Schily, il quale ricorda la particolarità di un intervento dove “i nemici non sono soldati, ma vengono definiti enemy combatants”, sollevando dubbi sull’equiparazione tra al Qaeda e i Talebani.

Rispetto alle conseguenze degli attentati terroristici dell’11 settembre sulla politica nazionale, oltre alla nascita di un sistema di sicurezza e di lotta al terrorismo caratterizzato da una maggior cooperazione tra gli organi di sicurezza interna ed internazionale, la stampa tedesca sottolinea i cambiamenti avvenuti all’interno delle forze armate tedesche. Come evidenziato da Die Zeit, dieci anni dopo l’11 settembre i soldati tedeschi fanno cose diverse rispetto a prima: “fanno la guerra, uccidono e vengono uccisi”. La Bundeswehr ha anche cominciato a rendere pubblici video di combattimenti: una cosa impensabile fino a dieci anni fa. E anche la più grande riforma della Bundeswehr non sarebbe stata possibile senza gli attacchi terroristici e il mutato impegno internazionale delle forze militari tedesche. Resta però il fatto, sempre sottolineato da Die Zeit, che il governo e il parlamento hanno per ora accuratamente evitato di fissare dei criteri precisi per la decisione di impiegare le forze armate tedesche in missioni all’estero.

L’ultima dimensione di analisi presente nella stampa è relativa alla mutata percezione della presenza islamica nella società tedesca. La Süddeutsche Zeitung analizza, attraverso interviste a sociologi ed esperti di studi islamici, “le radici della paura” ed i crescenti sentimenti di ostilità e scetticismo nei confronti della popolazione musulmana presente in Germania. E riprende l’analisi di Beate Küpper, dell’Istituto di ricerca sul conflitto e la violenza dell’Università di Bielefeld, sulle mutate percezioni della popolazione turca da parte dei tedeschi. Al loro arrivo in Germania, i turchi erano considerati come Gastarbeiter (lavoratori ospiti), e poi come Ausländer (stranieri) e Asylanten (richiedenti asilo); dopo l’11 settembre, sono visti prevalentemente come musulmani, con una riduzione dell’individuo alla sua dimensione religiosa. La paura del terrorismo viene quindi ad identificarsi con la paura dell’Islam. Secondo questa lettura, è quindi sostanzialmente riconducibile alle conseguenze dell’11 settembre anche il fatto che le tesi xenofobe di personaggi politici come Thilo Sarrazin, che sfruttano in maniera populista i problemi posti dall’integrazione degli immigrati in Germania, si siano potute affermare anche nell’ambito di una popolazione benestante ed istruita. Si sono così rafforzati quei sentimenti di paura che, non solo in Germania, costituiscono uno dei maggiori lasciti degli eventi di dieci anni fa.