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L’11 settembre della Cina

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L’11 settembre ha aperto due decenni completamente diversi, se visti da Washington o da Pechino. Dal punto di vista americano, è stato il decennio della paura, prima geopolitica e poi finanziaria. Dal punto di vista cinese, è stato quello della speranza, anzitutto economica. E del recupero di uno status di grande potenza: non ancora ritrovata del tutto ma più sicura di sé.

Questa distanza fra le percezioni o addirittura le emozioni fra le due sponde del Pacifico è confermata da un colloquio post 11 settembre fra George W. Bush e il presidente cinese Hu Jintao. Alla domanda del Presidente americano su cosa “lo tenesse sveglio la notte” – io, anticipò Bush, sono tenuto sveglio dalla preoccupazione di un secondo attacco terroristico – Hu Jintao rispose spostando il terreno: “Sono tenuto sveglio – replicò – dal problema di creare 25 milioni di posti di lavoro l’anno”. Una risposta che, su scala diversa, oggi potrebbe dare Barack Obama. E che allora era indicativa delle vere priorità di una Cina “economy-first” e del distacco psicologico dall’America “security-first” dei due mandati di Bush.

Nel suo ultimo libro sulla Cina (“On China”, 2011) Henry Kissinger sostiene che l’appoggio diplomatico di Pechino alla guerra contro al Qaeda fu più simbolico che altro. Mentre l’America concentrava forze ed energie in Afghanistan e in Iraq, la Cina pensava a garantirsi l’accesso al petrolio del Golfo e alle miniere di Aynak, vicino a Kabul. E restava tutta la sua ambivalenza sul Pakistan, retrovia di al Qaeda e alleato di Pechino nel confronto con l’India. Non sorprende che dopo l’uccisione di Bin Laden, la sfiducia fra Pakistan e USA abbia aperto nuovi spazi a Pechino.

In modo un po’ contorto – ma è andata così – si può perfino sostenere che la Cina ha finanziato le due spedizioni americane, da Baghdad ai confini dell’Indukush, perché le facevano comodo e perché un’America impantanata fino al collo nel Grande Medioriente si sarebbe distratta dalla competizione vera del nuovo secolo: quella con la nuova potenza confuciana, decisa a ritrovare la “shengshi”, la prosperità perduta dopo l’età d’oro della dinastia Qing, nel 1700.

La conclusione è semplice: la Cina ha visto nell’11 settembre una finestra di opportunità strategica. Di cui cogliere i vantaggi. A sei mesi dall’attacco di al Qaeda, la Cina entrava senza problemi nel WTO: la globalizzazione “made in China” era cominciata. Sul piano interno, Pechino ha utilizzato la minaccia qaedista per combattere con durezza il proprio “terrorismo”, il separatismo uiguro nello Xinjiang.

Alla fine del decennio, il costo degli impegni in Iraq e in Afghanistan, più di mille miliardi di dollari, equivaleva al debito americano detenuto da Pechino, grazie alle sue enormi riserve finanziarie. Chi aveva vinto la guerra fra paura e speranza? Questa tesi, tuttavia, non va spinta troppo oltre. I dietrologi professionali, ad esempio, sostengono che la leadership cinese non era arrivata impreparata all’11 settembre. Nel 1999, due anni prima dell’attentato, due alti colonnelli dell’Esercito popolare, Qiao Lang e Wang Xiangsui, avevano previsto in un loro studio la guerra “senza limiti” di al Qaeda contro l’Occidente. E gran parte delle sue conseguenze economiche, fra cui i vantaggi per la Cina.

Su un piano più serio, è vero che la leadership cinese ha cominciato ad interrogarsi, dopo l’11 settembre, sulle teorie relative al declino e all’ascesa delle nazioni. Dopo una serie di seminari di studio, la TV di Stato cinese trasmise nel 2006 una serie di grande successo sulla sorte degli imperi passati. L’obiettivo politico era sostenere che l’ascesa della Cina sarebbe stata pacifica, a differenza dei precedenti di Germania e Giappone. Nessuna delle grandi potenze o aspiranti tali si era mai impegnata – come notato da David Shambaugh, uno dei principali sinologi americani – “in un simile esercizio di riflessione su di sé”.

Tutto vero, ma senza esagerare. Tesi troppo lineari sul dopo 11 settembre – la lungimiranza di una Cina concentrata sulla propria ascesa; la miopia di un’America in relativo declino anche perché troppo “lunga” sul piano militare – fanno perdere di vista un punto decisivo: per la leadership comunista capitalista cinese un’America indebolita poteva essere un vantaggio; un’America troppo debole non lo è. Questa è tutta la differenza, in effetti, fra il settembre 2001 e il settembre 2008: quando, con la crisi finanziaria e le sue conseguenze, la Cina si è trovata esposta ai guai dei suoi vecchi “maestri” occidentali.

Il rischio, visto da Pechino, è che l’era post-americana arrivi troppo in fretta, costringendo una leadership ancora riluttante ad assumersi una quota di oneri globali, con i costi e le responsabilità che ne derivano.

L’epoca della Cina “free-rider” è finita. Il rischio è che la crisi del debito, negli Stati Uniti e in Europa, inceppi i meccanismi dell’economia globale, costringendo la Cina a una riconversione troppo rapida verso la domanda interna. E il rischio è che i problemi occidentali rafforzino a Pechino le correnti nazionaliste (per esempio, nei vertici militari) che una leadership pragmatica, oggi alle prese con la successione, era sempre riuscita a tenere sotto controllo. Le proiezioni sull’aumento del bilancio della Difesa e il rafforzamento della Blue Water Navy, combinati alle tensioni nel Mar Cinese meridionale, mostrano un volto della Cina che preoccupa gli USA. L’epoca della distrazione americana è finita a sua volta. L’eredità del decennio della guerra al terrorismo – ma in realtà del decennio in cui si è concluso il secolo americano – è quindi meno scontata di quanto si pensi: un declino relativo degli Stati Uniti rende anche più contrastata, più difficile e più costosa l’ascesa della grande potenza confuciana. La finestra di opportunità che si era aperta l’11 settembre si è chiusa più rapidamente di quanto i due alti colonnelli cinesi avessero previsto.