international analysis and commentary

La metafora dell’undicisettembre

314

L’11 settembre 2001 non è una data da celebrare: l’abbiamo citata e ricordata tanto spesso e in tanti modi da trasformarla in un simbolo. L’undicisettembre è ormai un concetto metaforico. Dunque non si celebra; semmai si usa e si applica a situazioni e contesti diversi. Più o meno fedelmente e accuratamente, è un concetto che descrive un attacco terroristico a sorpresa e il trauma che esso produce. Il concetto allude poi alla reazione (americana, soprattutto) che consegue da quell’evento scioccante: decisa e dura, per certi versi vendicativa.

Dire “subire un 11 settembre” è un po’ come dire “fare un ‘48” oppure “trovarsi impantanati in un Vietnam”. La metafora e quasi sconnessa dalla storia e dall’evento. La metafora vive ormai di vita propria.

La principale caratteristica specifica dell’undicisettembre, come concetto entrato nel nostro vocabolario, è di essere il trionfo delle conseguenze non intenzionali, cioè di quegli effetti indiretti di un evento che si verificano in luoghi e tempi lontani. L’attentato alle torri gemelle e al Pentagono non ha distrutto New York né Washington – e neppure fermato Wall Street per più di poche ore, sebbene il simbolo della finanza mondiale si trovi a pochi metri da Ground Zero. Gli effetti più macroscopici sono stati quelli indiretti, dovuti alle decisioni del governo americano: decisioni prese nel tentativo di punire i responsabili, prevenire un altro attacco di proporzioni simili, mandare segnali rassicuranti alla propria opinione pubblica e mostrare al mondo che gli Stati Uniti sono ancora l’unica vera superpotenza.

Guardando in quest’ottica a quell’episodio di dieci anni fa, al Qaeda ha cercato di cambiare l’America, che a sua volta ha cercato di cambiare il mondo – o forse di rimetterlo a posto, dal proprio punto di vista. In ogni caso, bin Laden e i suoi hanno usato l’odiata superpotenza come una grande leva, contando sulla forza americana per perseguire gli obiettivi di una radicalizzazione del mondo islamico. Non sapremo mai se questo fosse esattamente il piano di al Qaeda, ma certo nessuno poteva pensare di distruggere gli Stati Uniti a colpi di attentati, per quanto spettacolari e sanguinosi; l’obiettivo centrale dell’undicisettembre era probabilmente innescare la reazione psicologica americana che avrebbe instillato gravi dubbi in tutte le società occidentali sul proprio modello “aperto”. Scatenare una risposta militare americana era l’altro fine strategico dei terroristi.

L’Occidente è stato dunque manipolato come un enorme burattino da un piccolo gruppo di fanatici? Non è così semplice, perché anche al Qaeda (e i vari altri gruppi che hanno approfittato della sua azione) è diventata vittima degli effetti non intenzionali delle proprie scelte.

I momenti di svolta decisivi sono stati almeno quattro, in questo decennio, e le conseguenze indirette o impreviste hanno avuto sempre un ruolo centrale.

Anzitutto, gli Stati Uniti hanno rapidamente distrutto l’unico regime che incarnava davvero gli ideali di bin Laden & Co (cioè quello dei talebani in Afghanistan) e hanno messo quasi sotto assedio il Pakistan (dove lo stesso leader ha poi trovato la morte). Dall’inizio del 2002 i santuari centro-asiatici della rete islamista sono molto meno liberi di agire e organizzarsi, se non altro perché Washington può far pagare un prezzo alto ai governi che tollerano o fiancheggiano i terroristi. Il destino del Pakistan è davvero incerto dopo l’avvio del ritiro militare occidentale dall’Afghanistan, ma certo Islamabad è ormai un governo sotto stretta tutela e a sovranità limitata.

Il secondo punto di svolta è arrivato con quella che dovremmo chiamare “la grande anomalia”: l’invasione americana dell’Iraq nel 2003. Se la storia si potesse riscrivere, moltissimi americani (anche tra coloro che sostennero George W. Bush in buona fede) vorrebbero eliminare l’intero capitolo sull’Iraq. L’avventura irachena è stata infatti la vera, grande distrazione. È quella che ha risucchiato risorse e mostrato le debolezze e i lati peggiori dell’America, invece di creare un fulgido esempio di rapida democratizzazione. Tale giudizio negativo non cambia anche di fronte al fatto che l’Iraq di oggi – ad un prezzo enorme per tutti – è un paese ben più dinamico e con prospettive migliori rispetto a quello di Saddam Hussein.

La terza svolta è in un qualche modo la negazione dell’undicisettembre: la crisi finanziaria del 2008, trasformatasi poi in recessione quasi-globale. È l’evento che mette tutto il resto in prospettiva, rendendo evidente che il più terribile nemico dell’Occidente è il possibile declino economico. L’epicentro della crisi è proprio Wall Street, colpita stavolta in modo durissimo. Il futuro dell’ordine mondiale dipende dal riassetto in corso tra America e resto del mondo, tra (nord) Atlantico e Pacifico, assai più che da qualsiasi forma di jihad.

La quarta svolta di questo decennio è senza dubbio la meno pianificata e in apparenza contraddittoria: le rivolte arabe a quasi dieci anni di distanza, che chiudono idealmente il cerchio dell’undicisettembre. Bin Laden è morto, come anche molti dei suoi più diretti collaboratori; purtroppo vi saranno certamente altri che seguiranno le sue orme, ma intanto al Qaeda è stata apertamente sconfitta dai rivoltosi delle tante piazze arabe, più che dalle forze speciali americane. L’esito delle mobilitazioni arabe è, come sappiamo, molto incerto, ma le vecchie dittature non torneranno. I movimenti islamisti sono ora entrati più pienamente nella competizione politica, e questo passaggio è inevitabile per le società che non hanno risolto il rapporto tra istituzioni statuali e dettami religiosi. Il gioco è aperto e la confusione è tanta, ma finalmente ci sono barlumi di opportunità per intere generazioni di arabi (e di persiani, a ben guardare).

A distanza di un decennio, i traumi, le vittime e le ferite prodotti dagli eventi di quell’11 settembre sono tangibili e reali – non soltanto metaforici. Eppure, la più importante lezione da ricordare riguarda le idee e le loro strane conseguenze imprevedibili: un attentato terroristico, e soprattutto le sue immagini indelebili che guardiamo ossessivamente, sfuggono al controllo degli stessi responsabili, come anche dei governi autoritari che cercano di approfittarne in vario modo, o dei governi democratici che cercano di combattere il “terrore” nella mente dei cittadini. Sono le idee – sulla sicurezza, la rappresaglia, l’equilibrio tra autodifesa e libertà – che fanno la storia. Pur ammettendo che sono stati commessi molti errori nel rispondere agli attentati di New York e Washington, resta il fatto che chi li ha compiuti era portatore di idee perdenti.