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Israele-Palestina: la pace economica serve ma non basta

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Israele, in campo economico, adotta ufficialmente una politica di separazione, o di “non-relazioni”, con i palestinesi. Questa politica è chiamata Hafrada – letteralmente “divisione” – ed è stata avviata a partire dal 1995-96, quando ancora  si attendevano sviluppi positivi dal processo di Oslo. La motivazione principale fu una lunga serie di attentati suicidi; prima di allora, oltre un terzo della manodopera palestinese era impiegata in Israele. Le autorità palestinesi hanno ufficialmente accolto di buon grado la separazione, convinte della necessità di non dover ulteriormente contribuire all’economia israeliana – in particolare nel rapporto con i numerosi insediamenti israeliani di cui la West Bank è oggi costellata.

Eppure, tale divisione risponde più a una volontà politica che a una condizione effettiva: c’è in realtà una notevole interdipendenza tra le due economie in molti settori essenziali, nonostante tutte le barriere militari e logistiche. Lo dimostra anche il dibattito oggi in corso in seno all’Autorità Palestinese sull’opportunità di vietare proprio i contatti con gli insediamenti. E’ chiaro che i rapporti economici non possono essere trattati in modo del tutto indipendente dalla situazione politica: basti pensare che voci economiche essenziali come la dogana, alcuni prelievi fiscali, alcune sovvenzioni al consumo e perfino gli investimenti nei Territori continuano ad essere contabilizzati come parte integrante del bilancio israeliano. I prodotti palestinesi, poi, transitano obbligatoriamente per Israele e vi pagano un’imposta indiretta, così come tutte le importazioni: difficile dunque sostenere che l’economia palestinese possa dirsi svincolata dalle scelte politiche israeliane.

Su questo sfondo, Israele e Palestina hanno reagito meglio di molte altre economie alla recessione internazionale.

L’economia israeliana, quella che Dan Saron ha definito nel suo libro la “Start-up Nation”, ha registrato negli anni ’90 un boom economico decisivo grazie al settore hi-tech, come biotecnologie e informatica. Pur colpita dalla crisi, Israele è tornato a registrare una crescita positiva nel secondo semestre del 2009 – per le ragioni esposte dal vice-Premier Silvan Shalom nella recente conferenza di Aspen Institute Italia a Venezia.

La West Bank, a sua volta, non sembra essere stata intaccata dalla crisi internazionale, essendo parzialmente autonoma dal circuito dei grandi scambi mondiali. Il suo prodotto interno lordo nel 2009 ha registrato una crescita del 7%, con punte di crescita del 24% in alcuni settori-chiave, come il settore immobiliare, i servizi finanziari e i servizi sociali. Anche le costruzioni (10%) e la pubblica amministrazione (9%) hanno conseguito tassi positivi, mentre l’agricoltura ha marcato l’unica inversione di tendenza negativa, crollando del 17%. La disoccupazione è stata leggermente declinante dal 20 al 16% da inizio a fine 2009.

Si deve ribadire che questa situazione si basa per ora su due fattori: la strategia messa in campo dal governo Netanyahu (a cui i palestinesi si sono adattati senza troppo clamore), e la buona crescita economica palestinese in tempi di recessione mondiale (senza arrivare agli entusiasmi di chi parla di una piccola Silicon valley). Alla luce di questi trend, ci si può chiedere: è realisticamente immaginabile una “pace economica” su basi pragmatiche tra israeliani e palestinesi, come alternativa alla classica strada – tutta politica e simbolica – di una ripresa dei negoziati di pace? Per rispondere si devono interpretare con più precisione i dati e capirne i limiti.

In primo luogo, tutti i settori che hanno conseguito una crescita sono quelli sostenuti da finanziamenti esteri e donazioni, e sono dunque parzialmente indipendenti dalla crescita degli investimenti interni.   La capacità di attrarre capitali esteri (i 200 milioni di dollari donati dal Congresso USA, i 400 milioni di dollari raccolti tra altri stati donatori, e il trasferimento al Tesoro palestinese di 21 milioni di euro a copertura di salari e pensioni da parte della UE) si può considerare come un segnale visibile di successo palestinese. Ma ciò solleva un dubbio legittimo circa la sostenibilità nel lungo periodo della crescita, soprattutto se, come annunciato recentemente dal Primo Ministro Fayyad, l’Autorità Nazionale Palestinese cercherà nei prossimi anni di ridurre il debito estero e l’ammontare totale delle donazioni.

In secondo luogo, l’altro fattore cruciale dell’equazione rimane comunque Israele: lo sviluppo economico della West Bank non è infatti senza contropartita. E’ vero che Israele ha smantellato alcuni checkpoint e reso più fluido il traffico e i contatti tra alcuni grandi centri palestinesi (si parla di circa 147 tra posti di blocco mobili e checkpoint rimossi), ha permesso agli arabi-israeliani l’accesso legale a sette città palestinesi, concesso 5000 permessi di soggiorno notturno a lavoratori impiegati in Israele, e esteso gli orari di apertura e transito sul ponte di Allenby per potenziare gli scambi con la Giordania. E’ però altrettanto vero che non c’è stata alcuna concessione su altri punti qualificanti, come l’accesso per i palestinesi al sistema viario oggi esistente nei Territori ma ad esclusivo beneficio dei coloni, oppure lo smantellamento definitivo dei 613 posti di blocco attualmente rimasti.

Inoltre, il prezzo richiesto da Israele per ulteriori progressi economici è naturalmente la collaborazione delle forze di sicurezza dell’ANP, recentemente addestrate dagli USA, nel mantenimento della sicurezza interna ai Territori secondo standard e obiettivi imposti da Israele. Qualora il governo Fayyad dovesse deviare da una cooperazione stretta, il governo israeliano non esiterebbe a ripristinare prontamente lo status quo precedente.

Ancora, se pure Fayyad e Abu Mazen  sembrano al momento canalizzare gli sforzi nel risanamento economico della West Bank e dunque conciliare la loro strategia con il governo israeliano, i loro obiettivi di lungo termine rimangono differenti: Fayyad ha dichiarato che lo scopo ultimo dell’ANP è la revisione degli accordi di Parigi (traduzione economica di quelli di Olso). In sostanza, la visione di Fayyad punta a un prossimo riconoscimento internazionale de facto dello stato palestinese, come stato di diritto nonché economicamente sostenibile, una volta sconfitto il terrorismo e la cronica corruzione della dirigenza palestinese.

In conclusione, si può sostenere che la “pace economica” potrebbe costituire una strada percorribile, a condizione però di sciogliere alcuni nodi che rischiano di bloccare ogni ulteriore progresso: le elezioni palestinesi (con l’irrisolta questione di Hamas), poiché solo elezioni percepite come relativamente “free and fair” garantirebbero alla West Bank lo status, seppur fragile, di “democrazia” del Medio Oriente; la questione dei finanziamenti esteri e della strutturale dipendenza palestinese (come anche di Israele, in misura più ridotta) dall’Occidente ; e  il problema di un vasto consenso sociale e politico intorno alla via pragmatica, che non  sempre sembra esistere su entrambi i versanti. In effetti, in campo palestinese molti valutano la situazione attuale come un tentativo israeliano di creare dati di fatto sul terreno di fronte a una leadership palestinese debole che ha esaurito il suo capitale politico. In campo israeliano, i coloni e una certa destra criticano perfino le poche concessioni di Natanyahu e della Corte Suprema ai Palestinesi (ad esempio nella recente disputa sull’accesso alla strada nazionale 443) imputando al governo di “giocare alla roulette russa” con le vite dei propri cittadini.

Insomma, alcuni passaggi politici sono ormai indispensabili, anche se la logica pragmatica dei rapporti economici offre una base di partenza: è comunque un’occasione da non perdere per coloro che sono davvero intenzionati a superare lo status quo.