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Israele e Turchia: le vie del gas per superare le divergenze?

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Israele e Turchia sono legati da importanti interessi comuni in campo energetico, e hanno spesso collaborato in passato anche nel campo della sicurezza. Eppure, molti affermano che non sia mai stato toccato un punto più basso nelle relazioni israelo-turche. Incrinate a partire dall’Operazione Piombo Fuso a Gaza (2008) e dall’incidente della Mavi Marmara nel 2010 (in cui restarono uccisi alcuni cittadini turchi), sono oggi ulteriormente compromesse da alcuni sviluppi regionali: la più recente operazione a Gaza, durata quasi due mesi la scorsa estate, e il crescente antisemitismo che si registra in Turchia.

Tra gli episodi che attestano l’animosità delle autorità e dell’opinione pubblica turca nei confronti di Israele vi sono commenti antisemiti indirizzati sia ad Israele che alla minoranza ebraica presente nel Paese (circa 20.000 persone). Appena pochi giorni fa, commemorando la Shoah in una celebrazione che si è tenuta ad Ankara nell’ambito della giornata internazionale della memoria, il portavoce del Parlamento turco, Cemil Giçek, ha sottolineato come sia però doveroso commemorare le vittime di tutte le violenze, inclusi i Palestinesi innocenti uccisi a Gaza la scorsa estate. A inizio gennaio il Presidente Recep Tayyip Erdoğan, criticando la presenza del Premier Benjamin Netanyahu alla marcia antiterrorismo di Parigi, lo ha definito “anche lui un terrorista che massacra bambini innocenti sulla spiaggia di Gaza”. Pochi giorni dopo, in occasione della convention dell’AKP ad Ankara, commentando l’attacco al supermercato kosher a Parigi, il sindaco della città, Melih Gökcek, ha dichiarato che dietro gli attentati vi doveva essere la mano organizzativa del Mossad, interessato a colpire la Francia in un momento in cui in tutta Europa si svolgeva la campagna parlamentare per il riconoscimento dello Stato palestinese.

È chiaro insomma che in Turchia l’atteggiamento molto critico verso Israele non è affatto scemato dopo le scuse ufficiali (nel marzo 2013) presentate dal Premier Netanyahu per l’attacco alla Mavi Marmara: un sondaggio del Pew Center stima infatti che l’opinione pubblica turca consideri Israele appena meno sfavorevolmente dello Stato Islamico (Pew Research Center Poll, 2014). La sfiducia è peraltro ricambiata dall’opinione pubblica israeliana, che – secondo dati del 2013 – non approva neppure le scuse di Netanyahu, e considera Erdoğan un ardente sostenitore di Hamas. Il governo israeliano ha anche accusato la Turchia di chiudere un occhio sulle attività di Hamas sul suo stesso territorio (dove si sarebbero pianificati alcuni attentati in Cisgiordania).

La Turchia ed Israele, al di là delle contingenze e della retorica, sono strategicamente divisi su alcuni dossier regionali fondamentali: Iniziando da quello curdo, con Israele che vedrebbe favorevolmente la creazione di uno Stato curdo indipendente al contrario della Turchia. C’è poi  la questione del nucleare iraniano, con la Turchia che chiede o un bando totale del nucleare da tutta la ragione o il riconoscimento del diritto di arricchimento dell’uranio a scopi civili. E ancora la cooperazione israelo-cipriota: Israele difende il diritto sovrano di Cipro a diventare terra di transito degli oleodotti e a possedere una “zona economica esclusiva” a largo delle sue coste, che comprenderebbe il nuovo giacimento di gas naturale “Afrodite” scoperto a sud-est dell’isola (dichiarazione di Avigdor Lieberman, november 2014). La scoperta di giacimenti di gas naturale a largo di Cipro è già oggetto di studi esplorativi da parte di aziende legate ad Israele (come la statunitense Noble Energy) e all’Europa attraverso il consorzio italo-coreano ENI-Kogas: vi si troverebbero, infatti, tra i 127.000 e i 212.000 miliardi di metri cubi di gas.

Gli Stati Uniti sembrano vedere proprio nel gas l’unico possibile incentivo economico da cui partire per favorire l’integrazione regionale e stabilizzare l’area del Mediterraneo orientale. La nozione di “un oleodotto mediterraneo” potrebbe infatti spingere a cooperare Paesi come Turchia, Grecia, Cipro, Israele ed Egitto (oltre a garantire all’Unione Europea l’apertura di un nuovo canale energetico, per quanto limitato, indipendente dalla Russia). Il progetto americano è quello di potenziare la rete energetica esistente – ovvero l’oleodotto Baku-Ceyhan collegato a quello Ashkelon-Eilat con sbocco sul Mar Rosso – per guadagnare una via di comunicazione diretta con il Sud-est asiatico, senza passare né per la Federazione Russa né per la Cina.

Israele, rispondendo anche alle sollecitazioni americane, ha già disegnato un piano per utilizzare le sue riserve di gas naturale, scoperte nelle piattaforme Tamar (già in corso di sfruttamento), e in quella Leviatano, (potenzialmente operativa a partire dal 2017): il 40% delle riserve della prima e l’80% della seconda rispettivamente sarebbero destinate all’esportazione verso i Paesi limitrofi, in particolare verso la Giordania, con le sue fabbriche situate sul Mar Morto e la Società elettrica (per 1,8 miliardi e tre miliardi di metri cubi rispettivamente), l’Autorità Nazionale Palestinese (4,75 miliardi di metri cubi), e l’Egitto (che ha già siglato un accordo preliminare non-vincolante con la compagnia israeliana BG International Ltd e Union Fenosa Gas, SA – in joint-venture con la spagnola Gas Natural e l’ENI- per l’acquisto di gas liquefatto da stoccare nel suo porto di Damietta a partire dal 2017).

Israele, in sostanza vorrebbe utilizzare il gas come leva diplomatica nei confronti dei suoi vicini, bypassando l’esigenza di accordi politici, ma creando una forte interdipendenza regionale e garantendo così la collaborazione di tutti gli Stati al mantenimento degli impianti che ne approvvigionano i consumi e, implicitamente, allo status quo geopolitico.

Su questo sfondo, Israele e la Turchia hanno bisogno l’uno dell’altro per motivi energetici. Israele dipende dal petrolio che le giunge dall’Azerbaijan, il Paese che oggi fornisce il 40% del suo fabbisogno tramite l’oleodotto Baku-Ceyhan attraverso tutto il territorio turco. La Turchia, con una popolazione di 77 milioni in costante crescita, un mercato in forte espansione ed un consumo interno di gas pressoché raddoppiato nell’arco degli ultimi dieci anni (da 18 miliardi di gas del 2002 ai 39,5 del 2011) potrebbe a sua volta avere bisogno di Israele, e guarda al possibile sfruttamento del giacimento del Leviatano, che ha costi molto competitivi.

Il progetto di costruire un gasdotto che connetta la piattaforma offshore del Leviatano, capace di fornire tra i 18 e i 20 miliardi di metri di cubi di gas all’anno, alla città turca di Kalkan, è già allo studio da parte di vari gruppi industriali delle due parti: la Noble Energy, la Delek Drilling Company e l’Avner Oil Exploration, da parte israeliana, e i colossi turchi della Holding Sabançi e Turcas, dall’altra. Oltre a rafforzare l’approvvigionamento energetico, la realizzazione di un tale progetto andrebbe a potenziare il ruolo della Turchia come Paese di passaggio di tutti i maggiori oleodotti diretti verso l’Europa – il Southern Gas Corridor (SGC), la South-Caucasian Pipeline (SCP), la Trans-Anatolian Pipeline (TAP) e la Trans-Anatolian Natural Gas Pipeline (TANAP). La Turchia ha già tentato altre strade per diventare il principale esportatore di gas verso l’UE: con il Turkmenistan nel 1999 e con l’Iran nel 2007, ma entrambi i tentativi sono falliti. Ora si ripresenta l’opportunità in tandem con Israele e grazie ai giacimenti del Mediterraneo orientale, a condizione di risolvere l’annosa questione di Cipro e superare i contrasti con Tel Aviv.

Nonostante gli interessi di Ankara e Tel Aviv convergano sulla questione del gas, i fattori ideologici e simbolici, oltre ad alcune divergenze strategiche, rimangono seri ostacoli. Il pragmatismo potrebbe ancora prevalere da entrambe le parti, ma è anche vero che g gli accordi energetici normalmente seguono e non precedono i negoziati i politici, e raramente possono sostituirli. In definitiva, un accordo sullo sfruttamento delle risorse di gas potrà anche essere trovato tra i Paesi dell’area, ma è tutto da dimostrare che questo di per sé sia sufficiente a portare alla stabilità, alla pacifica convivenza e ad un maggiore benessere diffuso nel Mediterraneo orientale.