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Israele e l’equazione intricata: la minaccia iraniana e il dossier colonie

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Scorrendo i giornali israeliani dell’estate 2009, sembrerebbe ad una prima occhiata superficiale che il dossier iraniano non faccia più notizia. I resoconti sullo stato dei negoziati e il calendario degli incontri tra UE, amministrazione USA e Iran – alle Nazioni Unite e in Turchia – è costantemente aggiornato, ma l’enfasi sulla minaccia di distruzione incombente sul Paese è paradossalmente assente.

Tale dato può stupire gli affezionati lettori, soprattutto stranieri, del Jerusalem Post, di Ha’aretz e di Yediot Achronot, se non altro perché il senso comune vorrebbe che il pericolo, col passare dei mesi, invece che dissiparsi si sia accentuato. E’ dunque utile analizzare le ragioni di questa scomparsa momentanea – poiché certamente non hanno nulla di definitivo.

Occorre innanzitutto considerare il concetto del linkage negoziale, ovvero del parallelismo e del collegamento operato tra il dossier iraniano e il conflitto israelo-palestinese dal Premier Nethanyau, che considera le due questioni a pieno titolo come due facce della stessa medaglia.

Inizialmente il governo israeliano aveva posto un accento prioritario sul dossier iraniano, considerando lo stallo nel conflitto con i Palestinesi una circostanza a suo momentaneo vantaggio. Il tempo giocava dunque come un fattore ambivalente: correva dal lato iraniano, dove l’arricchimento dell’uranio ai fini della costruzione della bomba atomica per scopi militari presentava un timer letale, mentre poteva arrestarsi su quello palestinese, dove nessun progresso negoziale era prevedibile né auspicabile nel breve periodo.

L’iniziale preoccupazione israeliana riguardo al dossier iraniano è apparsa ai più sincera perché impostata su un’ottica di lungo periodo. Inoltre, era in linea con le apprensioni di altri Paesi occidentali sulla proliferazione nucleare in Medio Oriente e, specificamente, sul possesso di armi atomiche da parte di un Paese loro “ostile” come l’Iran. Sulla questione iraniana, in altri termini, seppur con uno scadenzario diverso, i Paesi occidentali hanno riscoperto un interesse strategico comune che li lega ad Israele. E non solo quelli occidentali, se si considerano le inquietudini egiziane e saudite rispetto a un possibile rovesciamento degli equilibri militari e politici nella regione.

Israele, dunque, ha goduto sostanzialmente di un certo consenso internazionale sul dossier iraniano, per quanto l’approccio inizialmente manifestato dal governo attraverso l’ipotesi di un raid aereo unilaterale abbia senza dubbio spaventato i più invece di rassicurarli sulle opzioni a disposizione. Tel Aviv aveva in seguito moderato i toni e accettato l’apertura di un canale negoziale con l’Iran, circoscritto ad alcuni mesi da parte dell’amministrazione americana. Ciò senza pur senza scartare le opzioni militari.

Negli ultimi mesi i preparativi a riguardo non si sono arrestati: prova ne sono alcuni test eseguiti durante i mesi estivi sul nuovo sistema di difesa antibalistica approntato dall’aeronautica israeliana, nonché il passaggio di navi e sottomarini militari per il canale di Suez – con il consenso egiziano – per sperimentare dinamiche e tempi di percorrenza nell’eventualità di un’operazione militare.

Eppure, a distanza di pochi mesi, il quadro generale appare molto diverso dalla primavera 2009: è infatti difficile trovare traccia dell’urgenza che aveva contraddistinto i primi negoziati sul nucleare iraniano, ma d’altra parte anche dell’enfasi ottimistica posta dalla nuova amministrazione americana sul rilancio del processo di pace all’inizio del suo mandato.

Il quadro è davvero cambiato, al di sotto della superficie? Probabilmente no. Il minore senso di urgenza da parte israeliana deriva in parte dalla tempistica: i negoziati sul dossier iraniano devono attendere la maturazione dei tempi fisiologici delle ispezioni e delle sessioni delle Nazioni Unite, e tutto è stato ritardato ulteriormente dagli sviluppi interni a seguito delle elezioni iraniane di giugno.

Ma per capire meglio si deve prendere in considerazione anche lo stallo sull’altra faccia della medaglia, cioè il conflitto arabo-palestinese. Qui diventa essenziale il dato delle aspettative deluse da parte occidentale: l’insediamento dell’amministrazione Obama aveva generato grandi – quasi certamente eccessive – speranze rispetto a un dialogo rinnovato con il mondo musulmano e a un orientamento multilaterale sulle maggiori questioni internazionali – compreso dunque il problema israelo-palestinese. Il momento più qualificante di questa fase di lancio è stato rappresentato dal discorso pronunciato al Cairo dal presidente americano lo scorso 4 giugno. Tuttavia, l’amministrazione godeva allora di un solido consenso interno che sembra si stia ora lentamente sgretolando a seguito delle difficili scelte di politica economica e nel corso della campagna per la riforma sanitaria. Washington appare, comprensibilmente, più concentrata sul fronte interno che su dossier internazionali pure di grande importanza.

Tale scelta di priorità ha già comportato delle conseguenze tangibili. L’inviato speciale di Obama, George Mitchell, continua a fare la spola tra Washington, Gerusalemme e Ramallah, addensando tutte le aspettative per una ripresa dei negoziati di pace sul congelamento dei piani di costruzioni negli insediamenti, un tema che rappresentava solo uno degli aspetti trattati nei precedenti negoziati. Tale punto era perfino assente negli accordi di Oslo del 1993. La stessa Road Map si è del resto arenata su questioni molto più sensibili e vincolanti delle colonie. Quella di Obama sarebbe dunque, anche ammesso che ci fosse davvero, una ripresa negoziale al ribasso.

Per un governo israeliano, come quello guidato da Benjamin Netanyahu, fin dall’inizio poco predisposto e ancor meno convinto della necessità di una ripresa dei negoziati, tutto ciò ha significato di fatto una riduzione della pressione diplomatica.

Poco da stupirsi, dunque, che l’accento sul congelamento degli insediamenti (inizialmente si era parlato di demolizione, ma ora tale richiesta è venuta a cadere) faccia calare ulteriormente gli già scarsi consensi di cui la visione obamiana gode presso la popolazione israeliana. I sondaggi in tal senso si attestavano in agosto al 29%. Ma a questo punto, l’assenza di progressi rischia di provocare una disaffezione altrettanto consistente tra i Palestinesi, appena usciti da un congresso che ha radicalmente rinnovato la propria classe dirigente, ma tra cui solo il 39% si esprime in maniera ottimista e favorevole sulle prospettive del processo di pace.

E’ probabile così che la destra israeliana più radicale torni a dettare le condizioni, alimentando le proprie posizioni nazionaliste grazie all’assenza di una guida autorevole nella regione: un’impressione, questa, rafforzata dal basso profilo tenuto dall’amministrazione Obama rispetto ai recenti brogli elettorali in Iran, come anche rispetto ai test nucleari nordcoreani.

In breve, il governo israeliano e la stampa nazionale non ritengono più utile porre un’enfasi eccessiva sul nucleare iraniano, ma non per un fondamentale mutamento di percezione: il fatto è che il governo è convinto di aver recuperato il proprio consueto margine d’azione nei confronti di Washington. E scommette sulla solidità complessiva della special relationship con gli Stati Uniti, nonostante le frizioni degli ultimi mesi.

Il paradosso è che le prospettive sul futuro sono più inquietanti che mai, visto che un’operazione militare israeliana si presenta più probabile oggi di quando era pubblicizzata come imminente sulle colonne di tutti i giornali e nei notiziari. L’intricata equazione che lega il dossier iraniano e il futuro degli insediamenti si potrebbe rivelare soprattutto molto pericolosa.