I prossimi passi dell’India verso una politica da vera grande potenza potrebbero passare dal Mar Cinese meridionale, mentre cambia anche l’atteggiamento verso paesi come il Vietnam, la Birmania e l’Afghanistan. Per ora sia tratta soprattutto della ricerca di un bilanciamento con le grandi potenze n nome del multipolarismo. Se la partnership con gli Usa viene spesso indicata come l’asse portante e la scelta strategica di fondo dell’India proiettata nel XXI secolo, una nuova consapevolezza delle proprie potenzialità richiede sbocchi costruttivi anche per quanto riguarda i rapporti con Russia e Cina. Tuttavia, queste scelte regionali di Nuova Delhi vanno collocate in una visione che comincia a diventare globale.
La richiesta di una politica di potenza a tutto spettro viene con particolare insistenza dal mondo imprenditoriale, che può far pesare i suoi indubbi successi: soprattutto una crescita del PIL che, pur in calo rispetto agli anni precedenti alla crisi internazionale, supera anche per quest’anno il 7%. Ma, proprio alla luce degli obiettivi già raggiunti, non ci si accontenta più di una sorta di“piccolo cabotaggio”. Oltre a “guardare verso Est” (secondo lo slogan già in voga dall’inizio degli anni ’90 con particolare riferimento all’area ASEAN), ora molti ritengono che sussistano le basi per competere con le massime potenze economiche – Usa, Cina, Giappone. Per farlo serve però una capacità di penetrazione in nuovi mercati, accesso garantito alle materie prime, attrazione di capitali.
Si tratta di richieste non facili da soddisfare perché l’India resta prigioniera delle sue contraddizioni: un mondo rurale e arretrato che è ancora dominante sotto l’aspetto numerico e dunque elettorale (due terzi della popolazione che vive nelle campagne), un altissimo numero di analfabeti (negli Stati più poveri come Bihar e Uttar Pradesh si sfiora ancora il 50%) e che vive sotto la soglia della povertà (circa un terzo, in calo rispetto al 50% che si registrava nel 1990). Inoltre il ceto medio è in crescita ma ancora troppo debole (secondo una ricerca della Deutsche Bank, anche allargando al massimo il concetto di middle class si arriva appena a sfiorare il 30% della popolazione totale). A ciò vanno aggiunti scontri etnici e religiosi alimentati dalla diseguaglianza sociale: il 15 novembre ad esempio i maoisti del Bengala occidentale hanno annunciato che la tregua da poco proclamata è già lettera morta. Il risultato è un’impasse, data l’eterogeneità sociale ed economica: così le riforme liberiste, privatizzazioni in testa, vengono bloccate dalla sinistra radicale e lo stesso Partito del Congresso continua a esitare, tanto che la stampa legata a industria e finanza le paragona a Godot. La corruzione intanto continua a dilagare e alimenta movimenti di protesta che nel nostro linguaggio definiremmo di “antipolitica”.
Altro punto debole e fonte di gravi tensioni è la conflittualità col Pakistan a causa del Kashmir. Il 10 novembre c’è stato un incontro tra i primi ministri Manmohan Singh e Yusuf Raza Gilani, durante il quale si è parlato di un “nuovo capitolo” nei rapporti tra i due Paesi e si è avviata una “normalizzazione” commerciale: Islamabad ha concesso all’India la clausola di nazione più favorita che è già in vigore in senso inverso da quindici anni. Ma i veri nodi non sono risolti, come dimostra il secco no dei militari alla proposta di Singh di cancellare la legge sui poteri speciali delle forze armate che consente di usare il pugno di ferro contro chiunque sia sospettato di attività anti-indiane in Kashmir.
Eppure, la politica estera indiana si muove. Gli intensi rapporti con Washington e la politica del ”guardare verso Est” – cioè la dimensione globale e quella regionale – si compenetrano, con effetto di reciproco condizionamento. In particolare, in ambito regionale si punta non solo a sfruttare le opportunità esistenti – come nel recente passato – ma per modificare lo status quo secondo un preciso progetto. Al primo punto di questo progetto figura il contenimento della Cina, non per esasperare i contrasti ma per arrivare a trattare con essa alla pari.
Gli accordi raggiunti col Vietnam nelle scorse settimane danno il segno di questo nuovo corso. Nuova Delhi si offre come partner sia economico sia diplomatico, andando nella direzione indicata dagli USA, ma spingendosi ancora oltre con “visite di cortesia” di navi da guerra nei porti vietnamiti e accordi tra la compagnia petrolifera di stato indiana Videsh col governo vietnamita per l’esplorazione di due giacimenti in zone del Mar Cinese meridionale rivendicate dalla Cina. La reazione di Pechino è stata ovviamente immediata (considerando che Hanoi sta stringendo accordi di sicurezza anche con Filippine e Giappone) : come ha dichiarato il portavoce del ministero degli esteri cinese, “Ci auguriamo che Paesi terzi non compiano ingerenze nella disputa [sullo sfruttamento delle risorse marittime] e aiutino i Paesi della regione a risolvere il contenzioso attraverso i canali bilaterali”. Secca la replica di Nuova Delhi: la cooperazione col Vietnam avviene nel rispetto del diritto internazionale e serve a garantire sicurezza energetica all’India; dunque proseguirà.
C’è poi la Birmania che, dopo le elezioni del 2010, sembra volersi in qualche modo sganciare dalla Cina ricercando supporto militare in Russia e copertura economica in India. Nuova Delhi non ha mai interrotto scambi e investimenti in Birmania, ma appare ora disponibile (forse col silenzioso placet di Washington) a sostenere direttamente una fase di “institution-building” e incoraggiare l’amministrazione di Thein Sein, l’ uomo forte birmano, ad impostare una vera transizione alla democrazia.
Quello che secondo numerosi analisti l’India prospetta è un parallelismo tra il proprio impegno verso Vietnam e Birmania e quello cinese verso il Pakistan: se la Cina guarda al Mar Cinese meridionale come al suo cortile di casa (dove non vuole ingerenze esterne) lo stesso fa l’India col Pakistan. E’ un avvertimento comunque compatibile con rapporti più distesi qualora la Cina fosse pronta ad accettare una divisione di responsabilità e di interessi a livello regionale. In tal senso, l’assetto dell’Afghanistan sarà un banco di prova importante. Nuova Delhi, in sintonia con Washington, sta giocando un ruolo decisivo per disegnare il futuro di quel Paese dopo il disimpegno americano (che dovrebbe essere completato nel 2014). Con l’’attuale governo di Kabul c’è una generale convergenza di vedute concretatasi anche in rapporti di cooperazione militare. La Cina a sua volta è molto interessata a mettere le mani sulle ricchezze minerarie dell’Afghanistan. Una “coabitazione” che soddisfi sia Nuova Delhi sia Pechino appare possibile, soprattutto se la Cina allentasse i legami col Pakistan; e questa, sarebbe davvero la miglior prova del salto di qualità della politica estera indiana.