Con Hugo Chávez fino alla fine: è questo il verdetto, politico prima ancora che giudiziario, della settimana più incerta che il Venezuela ha vissuto negli ultimi dieci anni.
Il 9 gennaio la Corte Suprema ha constatato l’impossibilità per il presidente eletto di giurare – inaugurando così il suo quarto mandato consecutivo – di fronte all’Assemblea Nazionale (il parlamento) l’indomani, per motivi di salute. Ha perciò rinviato a data da destinarsi l’inaugurazione, che si terrà di fronte alla Corte Suprema stessa. “Trattandosi di un presidente ri-eletto, non c’è interruzione nell’adempimento dei doveri”: è stato seguito il principio della continuità amministrativa.
La decisione non può essere definita anti-costituzionale visto che la Carta, modificata su indicazione di Chávez nel 1999, è molto fumosa sul tema della successione presidenziale e concede proprio alla Corte Suprema – vicina al presidente – una certa discrezionalità. L’opposizione, dopo aver invocato elezioni anticipate, per ora ha sostanzialmente accettato il verdetto.
Da questi giorni di caos controllato, e dai mesi trascorsi dopo la vittoria elettorale di Chávez a ottobre, possiamo trarre alcune indicazioni sul futuro immediato del Venezuela.
La prima indicazione riguarda Chávez stesso. Il presidente è debilitato dal cancro e non compare in pubblico da oltre un mese: da quando è andato a Cuba ad operarsi per la quarta volta, gli sporadici e poco incoraggianti aggiornamenti sulle sue condizioni di salute provengono dal vicepresidente, ministro degli Esteri e attuale reggente Nicolás Maduro. Non sono stati resi noti referti medici, non ci sono foto, video o audio del degente: data l’assiduità con cui Chávez occupava direttamente i mezzi di comunicazione (compreso twitter, su cui è inattivo da oltre 70 giorni), questa sembra essere la spia più credibile della gravità della situazione.
Malgrado tutto ciò, l’Assemblea Nazionale non ha dichiarato né l’impedimento permanente né quello temporaneo, in base al quale – a rigor di Costituzione – Chávez avrebbe dovuto assumere l’incarico entro sei mesi. Il parlamento, controllato dal Partito socialista unito di Venezuela (PSUV, chavista), ha anzi concesso al capo di Stato “tutto il tempo necessario”.
Ancora adesso evidentemente la figura di Chávez è troppo grande e unificante perché il presidente sia estromesso: non solo perché dal 1998 ad oggi è l’uomo più votato del Venezuela e molti tra le classi più povere hanno sviluppato per lui un’adorazione quasi religiosa – un tratto già visto in altri regimi personalistici latinoamericani del passato – ma soprattutto perché è a capo di una vasta coalizione di interessi che senza il suo comando rischierebbe di disintegrarsi.
Le forze armate, i il partito, i sindacati, quella nuova classe sociale – la Boliburguesía – che negli anni di Chávez ha acquisito soldi e potere: tutti questi attori sono assolutamente fedeli al presidente, ma potrebbero non esserlo a un suo successore.
L’erede designato dallo stesso Chávez, Maduro, è un sindacalista ed ex-autista di autobus, che in qualità di ministro degli Esteri ha stretto contatti con tutti gli alleati del Venezuela in questi anni. Il presidente dell’Assemblea Nazionale Diosdado Cabello proviene invece dall’Esercito, e potrebbe essere più popolare tra i militari. Un altro nome di spicco dell’élite bolivariana è l’ex vicepresidente Elías Jaua, le cui quotazioni sono però in ribasso dopo la sconfitta alle recenti elezioni regionali nello Stato di Miranda contro il leader dell’opposizione Henrique Capriles. Poi c’è il ministro del Petrolio e presidente della compagnia petrolifera nazionale PDVSA, Rafael Ramírez. Infine, Adán, fratello maggiore di Chávez e governatore dello Stato di Barinas.
Con Chávez ancora presidente, i personaggi di maggiore spicco della “rivoluzione bolivariana” guadagnano tempo e rinviano l’eventuale resa dei conti. Nessuno di loro possiede il carisma e il potenziale elettorale dell’attuale capo di Stato: se questi non dovesse essere in grado di tornare a Palacio Miraflores, per gli altri si sarebbe appena aperto un periodo in cui rafforzare la propria credibilità. Maduro, in qualità di presidente vicario e delfino scelto da Chávez in persona, sarà l’osservato speciale.
Quanto all’opposizione, questa sa di non avere chances di vittoria fino a quando Chávez sarà – anche solo formalmente – attivo in politica. Alle ultime elezioni presidenziali Capriles ha ottenuto oltre sei milioni di voti, cioè un ottimo risultato, ma è stato pur sempre sconfitto con un distacco superiore al 10%; nelle regionali di dicembre lo stesso Capriles è stato uno degli appena tre candidati del fronte anti-chavista in grado di vincere: in 20 Stati su 23 il governatore è infatti oggi espressione della coalizione che fa capo al presidente, che solo pochi giorni prima del voto aveva annunciato il ritorno della malattia e l’imminente partenza per Cuba.
Il giovane avvocato che è stato rieletto governatore di Miranda rimane la figura più importante dell’opposizione: secondo i sondaggi Capriles potrebbe battere sia Maduro sia Cabello – anche se i sondaggi non tengono conto delle risorse che il candidato chavista potrebbe spendere in campagna elettorale. Il governatore piace per il suo stile pacato e perché, pur essendo giovane, ha già una certa esperienza politica. In politica interna adotterebbe un programma di tipo “lulista”, confermando le misure di sostegno alle classi povere decise da Chávez ma affiancandovi un approccio più favorevole all’economia di mercato. In politica estera il cambio sarebbe – almeno all’apparenza – più radicale, visto che Capriles volterebbe le spalle a Cuba e ad altri alleati chavisti come l’Iran per riavvicinarsi agli Stati Uniti.
Proprio sul piano internazionale sono arrivate altre indicazioni interessanti. La presenza di 26 rappresentanti di governi latinoamericani alla manifestazione a favore del presidente venezuelano del 10 gennaio dimostra che la regione è saldamente dalla sua parte: c’era il presidente uruguayano Mujica – come capo pro tempore del Mercosur – e il ministro degli Esteri argentino Timerman (la presidente Cristina Kirchner è andata addirittura all’Avana per mostrare il suo sostegno a Chávez, come il presidente peruviano Ollanta Humala). Il consigliere per la politica estera brasiliana Marco Aurélio Garcia nei giorni precedenti aveva affermato che Brasilia sosteneva la decisione di rinviare l’inaugurazione del nuovo mandato presidenziale di Chávez. Quest’ultimo ha ottenuto, l’estate scorsa, l’ingresso di Caracas nel Mercosur e l’inclusione come “paese accompagnatore” nelle trattative tra la guerriglia colombiana delle FARC e il governo di Bogotá.
Queste due vittorie diplomatiche segnalano anche l’avvio di una transizione nelle relazioni internazionali del Venezuela. Chávez per anni ha accarezzato il sogno di fermare l’ingerenza degli Stati Uniti in America Latina e diventare il leader di una potenza regionale ideologicamente agli antipodi di Washington. Washington ha effettivamente perso influenza nell’area, ma non per merito di Caracas: le ragioni di fondo sono state il disinteresse statunitense e la crescita del Brasile (e in minor misura del ruolo della Cina). Il Venezuela è in effetti a capo, assieme a Cuba, di un network emisferico di alleanze che rifiuta almeno formalmente i dettami del libero mercato; ma l’ascesa del Brasile, la caduta del prezzo del petrolio (principale asset venezuelano), l’emergere di problemi domestici e il peggioramento delle condizioni di salute del presidente hanno fatto sì che i sogni di grandezza chavisti svanissero.
Con l’ingresso nel Mercosur e con la partecipazione al processo di pace colombiano il Venezuela ha così iniziato la trasformazione da attore “anti-sistema” ad attore “sistemico”. Le condizioni economiche e politiche attuali (oltre a quelle fisiche di Chávez) non permettono di inseguire grandi progetti: le priorità del nuovo mandato presidenziale, chiunque lo porti a termine, devono essere la lotta alla violenza e alla corruzione, il contenimento dell’inflazione e quello del debito pubblico. L’attuale capo di Stato ha interpretato correttamente la situazione e ha impostato il cambio di rotta in questa direzione. Unico segnale contrastante è il minacciato ritiro dalla Corte interamericana dei diritti dell’uomo, organo dell’Organizzazione degli Stati Americani, secondo Chávez “manipolato” dagli Stati Uniti.
In questi giorni è stato confermato da Maduro e da fonti diplomatiche statunitensi proprio il riavvicinamento con gli USA, con cui le relazioni diplomatiche sono a livello di incaricati di affari dal 2010: con l’autorizzazione di Chávez ci sono state conversazioni telefoniche e incontri tra i rappresentanti dei due paesi. Gli Stati Uniti hanno costituito, come ben noto, un bersaglio privilegiato della retorica chavista, particolarmente ai tempi di George W. Bush, reo tra le altre cose di non aver condannato il tentato e fallito golpe contro Chávez dell’aprile 2002.
Con l’elezione di un presidente democratico e afroamericano come Obama, attaccare la Casa Bianca è diventato più complicato. In ogni caso, i discorsi anti-imperialisti del presidente venezuelano non devono oscurare il dato più importante di questa relazione bilaterale: Washington è il primo partner commerciale e acquirente del greggio di Caracas. Di fatto, il Venezuela ha bisogno degli Stati Uniti molto più di quanto gli Stati Uniti abbiano bisogno del Venezuela, complice anche la recente bonanza energetica nordamericana.
Il riavvicinamento agli USA rappresenta anche idealmente la fine della politica che ha reso famoso Chávez. Presto capiremo se sarà lui a gestirlo o se si è trattato di una delle sue ultime decisioni da presidente. Il Venezuela, per adesso, lo aspetta ancora.