international analysis and commentary

Il TTIP alla prova dell’opinione pubblica europea

233

La strada per portare a compimento l’accordo transatlantico di libero scambio rimane lunga e accidentata. Alla chiusura del settimo round di negoziati, non solo gran parte dei problemi evidenziati mesi fa è ancora sul tavolo, ma la resistenza politica all’accordo in Europa sembra essere aumentata notevolmente. Il destino del TTIP dipende ora chiaramente dal capitale politico che l’establishment europeo saprà spendere su questo tema.

Il settimo round di negoziati si è tenuto a Washington a inizio ottobre e si è concentrato sugli scambi nel settore dei servizi (compresi i servizi finanziari) e sulle regole commerciali speciali che dovrebbero toccare la protezione della proprietà intellettuale e la partecipazione delle piccole e medie imprese al commercio transatlantico. Apparentemente, la complessità di questi temi, e in particolare delle legislazioni a protezione dei servizi all’interno di ciascun paese, ha impedito il raggiungimento di obiettivi concreti. 

Il settore dei servizi vede le nazioni europee svantaggiate in particolare sul trasporto aereo e marittimo, nei quali è impossibile per un’azienda aerea europea possedere più del 25% di una americana (ma non viceversa), e per un’azienda navale europea di occuparsi del traffico tra porti statunitensi. Questo è confermato dall’indice delle restrizioni al commercio in servizi (Services Trade Restrictiveness Index) dell’OCSE, secondo il quale nel 2014 gli USA sono stati relativamente più protetti della zona euro (in termini regolamentari, di concorrenza, di movimento dei capitali e delle persone) per i servizi di trasporto, come anche di trasmissione televisiva. Un confronto con la Germania rileva che gli Stati Uniti sono più protetti anche nella distribuzione, le telecomunicazioni, le banche commerciali, le assicurazioni, le costruzioni e persino i servizi informatici. In particolare, quello dei servizi finanziari è un capitolo di discussione molto intensa nell’ambito del TTIP, alla luce delle grandi potenzialità di integrazione del settore in caso di successo, ma nel quale le specificità nella legislazione europea e statunitense rallentano i progressi, e rendono il risultato finale del tutto incerto.

Un secondo grande tema ancora poco esplorato dai negoziati, ma fonte di malumore da parte europea, è quello degli appalti pubblici: a fronte di una totale apertura del mercato europeo alle aziende americane, la Commissione Europea stima che solo il 32% degli appalti statunitensi sia aperto agli stranieri, con una percentuale nulla per gli appalti locali, ed una molto variabile rispetto ai singoli Stati degli USA. Il problema emerge dalla mancanza di competenza federale in termini di appalti, dalle regole applicate in molti Stati che restringono l’accesso agli appalti solo ad aziende statunitensi, e alle misure speciali per l’accesso agli appalti delle piccole e medie imprese.

Al contrario, a detta delle parti, in questo round di negoziati si è registrato un positivo avanzamento nella discussione sul coordinamento regolamentare, cioè sulla riduzione di quelle barriere commerciali non-tariffarie legate a divergenze di standard e procedure di produzione. Queste costituiscono oggi l’ostacolo principale al movimento delle merci tra gli Stati Uniti e la UE. In particolare, secondo uno studio di Ecorys del 2009, in Europa queste barriere equivalgono ad un dazio del 23% sul valore delle importazioni di beni manifatturieri, e del 10% per i servizi.

Nel frattempo tuttavia il dibattito politico europeo attorno a quest’ultimo punto è diventato a dir poco incandescente. Decine di migliaia di persone sono scese in piazza l’11 ottobre scorso in 21 Paesi dell’Unione in circa 400 azioni coordinate contro il TTIP (e altri trattati commerciali in fase di negoziato), chiedendo l’esclusione del capitolo regolamentare dai negoziati sul TTIP. Si teme che l’accordo di libero scambio porti ad una riduzione degli standard di protezione dell’ambiente, sanitari e sociali per i cittadini europei al livello degli Stati Uniti: i casi di grande richiamo sono gli alimenti OGM, il manzo allevato con ormoni, il pollo trattato alla clorina. Tale riduzione degli standard avverrebbe attraverso due canali: il primo di tipo diretto, con il riconoscimento di prodotti statunitensi come equivalenti in standard di qualità a quelli europei quando si suppone che non lo siano; il secondo di tipo indiretto, con la concorrenza di prezzo. Quest’ultimo scenario prefigura una sorta di effetto-contagio: poiché le merci statunitensi sarebbero soggette a regole meno stringenti, potrebbero essere vendute a più basso prezzo in Europa, creando un incentivo ad abbassare gli standard di qualità per gli stessi produttori europei, pur di restare sul mercato.

A fronte di queste critiche, i difensori del TTIP ribadiscono che si possono tagliare i costi delle asimmetrie regolamentari senza modificare almeno alcuni standard, e che comunque i singoli provvedimenti verranno concordati con rappresentati degli stessi regolatori nazionali. Viene poi contestata, soprattutto dalle autorità di Washington, la stessa ipotesi di base che gli standard statunitensi siano necessariamente più bassi di quelli europei, e alcuni studi indipendenti lo confermano, come ad esempio quello di Jonathan Wiener e coautori del 2010, dal titolo “The reality of precaution: comparing risk regulation in the US and Europe”. Secondo questa analisi, l’adozione del “principio di precauzione” che intende porre gli europei su un piano di protezione superiore, produrrebbe in realtà standard inferiori in temi quali inquinamento, tabacco, cellule staminali, o sistemi informatici. Inoltre, dato un livello di sicurezza minimo accettabile, è discutibile che introdurre merci di più basso prezzo ma anche più bassa qualità “rubi” il mercato alle produzioni di qualità migliore; ciò che conta sarebbe mettere precise informazioni sulla qualità stessa a disposizione del consumatore, e lasciarlo libero di esercitare le sue preferenze sul rapporto tra qualità e prezzo. Infine, escludere la cooperazione regolamentare dai negoziati ridurrebbe in modo sostanziale non solo il ritorno economico del TTIP, ma anche la sua importanza geopolitica, visto il carattere innovativo del TTIP proprio nel campo della cooperazione regolamentare, che potrebbe farne un paradigma per accordi tra altri paesi.

In ogni caso, i policymakers europei si sono pubblicamente impegnati ad impedire che il TTIP riduca gli standard europei. Hanno inoltre risposto ai numerosi richiami della società civile in termini di trasparenza dei negoziati, per esempio rendendo pubblico il mandato del Consiglio Europeo alla Commissione in materia di TTIP, il quale contiene le linee strategiche fondamentali per i negoziati. Rappresentati del Parlamento Europeo incontrano i negoziatori europei a inizio e fine di ciascun round di negoziati, e hanno accesso selezionato ai documenti interni dei negoziati. Sarà poi proprio il Parlamento ad approvare o meno il testo finale del TTIP, potere già esercitato a sfavore di un trattato internazionale con gli USA in occasione del trattato sulla protezione dei dati (ACTA). Maggiore trasparenza e una forte enfasi sul processo democratico che tocca il TTIP hanno come obiettivo ridurre i timori della popolazione che i negoziati rispondano solo a delle logiche di business.

Il terzo grande capitolo di contestazione del TTIP in Europa tocca la clausola di protezione degli investimenti (investor-state dispute settlement, ISDS). L’opinione pubblica europea teme questi accordi possano limitare la capacità di legiferare degli Stati europei anche di fronte a legittimi obiettivi di interesse generale. Si offrirebbe infatti a un investitore straniero un canale di giudizio precluso agli investitori domestici, aggirando il giudizio nelle corti nazionali. Ulteriori riserve sono legate alla sostanziale segretezza degli atti dell’arbitraggio, al fatto che non si possa ricorrere contro la decisione del primo e unico grado di giudizio, alla mancanza di limiti nelle penali che gli Stati possono dover pagare agli investitori in caso di perdita della causa, e al conflitto di interessi che può toccare i giudici coinvolti nell’arbitraggio. A difesa del provvedimento i negoziatori argomentano che il TTIP dovrebbe garantire miglioramenti rispetto alle clausole ISDS esistenti, ad esempio restringendo l’ambito dei possibili ricorsi, e abolendo la segretezza degli atti e i provvedimenti che generano conflitto di interessi.

A questo proposito sembrano emergere delle divergenze di opinione all’interno della stessa neo-eletta Commissione Europea, responsabile per i negoziati: in particolare tra la Ministro per il Commercio, Cecilia Malmstroem, a favore delle ISDS, ed il Presidente della Commissione Jean-Claude Junker, espressosi in modo contrario. Contro questa posizione del Presidente Juncker si sono levate le voci di 14 ministri europei in una lettera alla Commissione. Si profila quindi lo spettro di un ulteriore conflitto, questa volta tra Consiglio e Commissione, che si è già inasprito da quando la Presidenza di turno dell’Unione Europea, in mano all’Italia, ha proposto di ridurre le ambizioni del TTIP ad una sorta di “TTIP-lite”, un accordo privo di alcuni degli aspetti tuttora più controversi, a cominciare proprio dalle ISDS. La proposta non è stata ad oggi accolta dalla Commissione Europea.

Un problema di fondo è che l’impegno degli Stati membri stessi per la conclusione del TTIP rischia di vacillare quanto più accese si fanno le contestazioni dell’opinione pubblica. Si nota in particolare il relativo silenzio di due voci solitamente a favore di una crescita del libero scambio: la Germania, dove la protesta contro OGM e ISDS è forte nelle piazze come nei mass media, anche a seguito dello scandalo intercettazioni da parte della NSA statunitense, ed il Regno Unito, apparentemente troppo impegnato a definire la sua posizione nell’Unione per investire significativo capitale politico in questa battaglia.

Tra le molte correnti che condizionano i complessi negoziati TTIP, insomma, la marea oggi prevalente sembra spingere nella direzione contraria all’accordo. Alle divergenze specifiche su singoli capitoli negoziali si è aggiunto un clima politico non certo propizio. Difficile che bastino le dichiarazioni di impegno a margine dell’ultimo G20 australiano per cambiare il senso della corrente.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono solo all’autore e non corrispondono necessariamente a quelle delle istituzioni cui è affiliato.