Quasi sicuramente non passerà alla storia la “gira” latinoamericana di Obama del marzo 2011, avviata con aspettative ben al di sopra di quanto gli Stati Uniti potessero effettivamente realizzare, ma soprattutto concedere. È stato un tour perseguitato costantemente dal fantasma della crisi libica, tanto da muovere la stampa nazionale a chiedersi se fosse davvero il caso di intraprendere un viaggio internazionale di cinque giorni mentre gli occhi del mondo erano puntati su Tripoli e dintorni.
Eppure le ragioni per imbarcarsi in un tour di questo genere sussistevano eccome: considerata storicamente il mare nostrum statunitense – con espressione meno elegante, “il cortile dell’America” – negli ultimi due decenni la regione ha registrato soprattutto un certo disinteresse da parte di Washington. Gli Stati Uniti hanno perduto moltissimo terreno: un problema su cui vari analisti hanno invano cercato di indirizzare l’attenzione dei policy maker. La vecchia dottrina Monroe, che per un secolo e mezzo aveva mantenuto il continente sotto l’egida nordamericana, è un lontano ricordo. Negli ultimi anni, c’è poi un grande elemento di novità: l’incontenibile penetrazione economica della Cina, divenuta la principale destinazione per le esportazioni di vari paesi latinoamericani, tra cui Brasile e Cile. E oltre al commercio ci sono i flussi finanziari: con i 35 miliardi di dollari di prestiti del 2009-2010 ad Argentina, Bolivia, Brasile, Ecuador e Venezuela – come sottolinea Mauricio Cárdenas su Foreign Policy – la China Development Bank ha lasciato indietro la storica istituzione finanziaria della regione, l’Inter-American Development Bank (con il 30% di capitale statunitense), i cui finanziamenti annuali per l’intero continente sono di tre volte inferiori. In termini generali, l’influenza statunitense viene avvertita dall’opinione pubblica latinoamericana come sempre meno vincolante, mentre i governi della regione acquisiscono margini di manovra rispetto ad amministrazioni statunitensi ormai ben più preoccupate dagli avvenimenti in altre aree del mondo.
Il tentativo di “riagganciarsi” con la regione ha visto la scelta di tre paesi simbolici che rivestono una particolare importanza per gli interessi americani nel subcontinente, sebbene per ragioni diverse: Brasile, Cile ed El Salvador. Trascurati invece gli alleati storici come Colombia e Perù. Ignorati del tutto i paesi con atteggiamenti critici verso gli Stati Uniti, a cominciare dall’Argentina: la seconda potenza economica sudamericana è stata co-protagonista, tra l’altro, di un contenzioso diplomatico iniziato in febbraio con il sequestro di materiale bellico statunitense fatto entrare senza permesso all’aeroporto di Buenos Aires attraverso un volo militare.
La visita in Brasile è stata quella più lunga, nonché quella da cui ci si attendeva maggiori risultati. Il paese della neo-presidentessa Dilma Rousseff, settima economia mondiale, rappresenta una grandissima opportunità per le esportazioni statunitensi. Con una crescita del PIL del 7,5% nel 2010 e una classe media in netta espansione, il paese lusofono è certamente un competitore nel settore manifatturiero, ma offre anche notevoli opportunità per la creazione di nuovi posti di lavoro negli Stati Uniti e ha un evidente peso geopolitico. Il rigore macroeconomico si combina qui con il consolidamento quale potenza realmente democratica su scala mondiale; che al tempo stesso presenta elementi di un’economia in via di sviluppo e quindi è ben inserita nei network terzomondismi. Tale combinazione rende il Brasile un partner ideale in termini commerciali, finanziari e di politica estera per gli Stati Uniti. Non mancano però le difficoltà, come la chiusura del mercato agricolo americano che rende difficili le esportazioni brasiliane di etanolo, o la scelta di Brasilia di sospendere i diritti intellettuali sui farmaci (criticata da Washington). Il Brasile è poi critico nei confronti della svalutazione del dollaro che consente agli USA di mantenere un ampio surplus commerciale bilaterale. Sul piano politico invece, Obama ha certamente gradito il cambio al vertice nel maggiore paese latinoamericano, trovando in Rousseff un interlocutore meno interessato a coltivare le relazioni pericolose con Caracas, ma soprattutto con Teheran (che avevano provocato diffidenza e tensioni con il Dipartimento di Stato).
La visita cilena era dettata tanto da fini commerciali, quanto simbolici. Il Cile post-Pinochet ha agito in netto contrasto con i corsi economici interventisti intrapresi da vicini dell’area quali Argentina, Venezuela, Ecuador e Bolivia. Molti osservatori si aspettavano che Obama potesse pronunciare a Santiago l’equivalente latinoamericano del discorso pronunciato al Cairo nel 2009, una specie di pietra miliare per ri-orientare i rapporti con l’intera regione. Queste attese sono rimaste deluse, poiché le parole del presidente hanno sì sottolineato il grande dinamismo economico e sociale del subcontinente, ma hanno poi segnalato una linea di sostanziale continuità – da una parte disattendendo le aspettative di un mea culpa per i rapporti con vari regimi autoritari della regione negli anni Settanta e Ottanta, dall’altra ignorando le petizioni ad aprire uno spiraglio per lo smantellamento dell’embargo nei confronti di Cuba.
La tappa di San Salvador verteva ufficialmente su questioni di sicurezza. El Salvador è uno dei paesi più violenti al mondo, nonché crocevia importante della droga dei cartelli messicani che invadono il mercato statunitense. Il presidente salvadoregno Mauricio Funes sperava di poter trovare un’intesa sulle politiche migratorie alla luce dei circa 3 milioni di connazionali che vivono negli Stati Uniti (220.000 dei quali godono di un permesso speciale che viene rinnovato ogni 18 mesi da ormai dieci anni, in seguito al terremoto che colpì il paese centroamericano nel 2001). Ci si attendeva un decisivo passo avanti su questo problema, ma anche qui Obama non si è voluto sbilanciare. Resta comunque la scelta simbolica di “premiare” con la visita le politiche moderate perseguite dal presidente Funes, che pure aveva vinto le elezioni nel 2009 guidando il Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional, l’ex guerriglia marxista della guerra civile degli anni Ottanta. Nonostante questa scomoda eredità, Funes ha infatti evitato di apparire troppo vicino a Chávez e a Cuba.
In definitiva, il tour di Obama ha svelato molte delle debolezze e dei ritardi della politica statunitense nei confronti dell’America Latina. Washington esita ancora per l’approvazione dei Trattati di Libero Commercio con Panama e Colombia, è in procinto di essere scavalcata dalla Cina come partner economico, ed è sfidata da governi che cercano un’integrazione politica e commerciale tutta latinoamericana (vedi il progetto UNASUR, che potrebbe rendere marginale l’ormai logora Organizzazione degli Stati Americani). È il momento per gli Stati Uniti di ripensare il proprio approccio al subcontinente: un mercato di consumatori in grande espansione, in una regione ricca di risorse naturali, dovrebbe indurre politici e tecnocrati a non distrarsi più come in passato.