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Il sistema partitico britannico in bilico

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La campagna per le elezioni legislative inglesi – sono gli eletti dei collegi uninominali che scelgono il primo ministro, benchè ogni partito abbia già il suo candidato – è finora restata, almeno in apparenza, fedele a una tradizione quasi ancestrale. L’attuale Premier David Cameron si è recato a Buckingham Palace, dove ha informato la Regina dello scioglimento ufficiale del Parlamento. Di ritorno alla sua residenza di Downing Street, ha lanciato un attacco frontale contro il suo avversario laburista: “La scelta è netta; il prossimo primo ministro sarò io, che rappresento un sistema che cresce, o Ed Miliband, simbolo del caos economico”.

Concentrando il suo discorso sul suo concorrente principale, Cameron dà l’impressione che la campagna elettorale giri ancora tutta attorno al tipico bipartitismo britannico. Tuttavia, come diversi altri Paesi europei, anche il Regno Unito – per molti versi simbolo di alcune delle più antiche tradizioni istituzionali del mondo – sembra entrare in un’era politica nuova. Raramente un’elezione è stata così serrata: i sondaggi non riescono a stabilire un favorito, nè è chiaro di quante e quali alleanze avrà bisogno per governare. Inoltre, non si era mai vista una crescita importante di così tanti partiti “secondari”: la frammentazione dell’elettorato è senza precedenti.

Nel 1951 – il welfare state era stato appena introdotto nella politica economica del regno dopo i sacrifici della seconda guerra mondiale – laburisti e conservatori sommavano il 97% dei voti totali; alle ultime legislative (2010), la cifra si era ridotta al 65%. All’inizio, è stato il partito liberal-democratico a riempire la mancanza di consenso dei due soggetti principali: mettendo insieme forze e idee abbastanza eterogenee, dagli elettori di sinistra contrari alla guerra in Iraq sostenuta da Blair, ai liberali che non apprezzavano l’euroscetticismo dei conservatori, i lib-dem diventavano una specie di parcheggio per cittadini insoddisfatti.

Il loro consenso, giunto al 23% nel 2010, è volato in pezzi dopo il loro ingresso nell’uscente governo di coalizione con i conservatori. Un po’ oscurati dal presenzialismo di Cameron e variamente incolpati di non aver fatto nulla contro le sue politiche economiche liberiste, le tasse universitarie triplicate o l’intervento militare in Libia, secondo i sondaggi sarebbero scelti oggi solo dall’8% dei votanti. Aggiungendo a questo numero il 30-35% tra cui ondeggiano laburisti e conservatori, resta circa un quarto dell’elettorato che sceglierà al di fuori dei classici steccati politici britannici.

Ciò ha permesso l’emergere di due grandi fenomeni. In Inghilterra, lo scontento nei confronti dei conservatori ha messo le ali allo United Kingdom Independence Party (UKIP), primo partito con il 27,5% alle europee dello scorso anno. Il poplulismo del leader Nigel Farage offre una soluzione semplice a tutti i problemi: l’uscita dall’Unione Europea, che permetterebbe di riottenere il controllo delle frontiere e fermare l’immigrazione dall’Europa meridionale e orientale in favore di quella dal Commonwealth anglosassone, e risparmiare dieci miliardi di sterline l’anno da destinare alle politiche sociali. Con un programma che punta molto sulla redistribuzione dei redditi, lo UKIP, che nei suoi messaggi pubblicitari si autodefinisce people’s army, vorrebbe sedurre anche gli sfiduciati elettori laburisti – il primo punto del manifesto del candidato Ed Miliband, ridurre il deficit ogni anno, non scatena certo gli entusiasmi – delle zone settentrionali del Paese.

Ciononostante, la sua proposta politica continua a piacere in particolare nel sud conservatore e isolato – ad esempio lungo la costa un tempo ricca e oggi esclusa dal dinamismo economico della capitale. È in quest’area del Paese che nei mesi scorsi due deputati tory dimissionari, passati all’UKIP, sono stati trionfalmente riconfermati dai loro elettori; e che ora Nigel Farage, nella circoscrizione di South Thanet (Kent), spera di farsi eleggere per la prima volta alla Camera dei Comuni, dopo quindici anni di “purgatorio” al Parlamento Europeo.

Eppure le previsioni per il partito di Farage non sono rosee: i sondaggi gli attribuiscono il 12%, ma il sistema elettorale a turno unico (solo chi, all’interno del collegio locale, ottiene più voti viene eletto) lo sfavorisce. I conservatori hanno candidato a South Thanet un ex UKIP “pentito” – mentre Farage proviene proprio dai conservatori, che abbandonò dopo la firma del trattato di Maastricht: Craig Mackinlay sta dando filo da torcere al suo celebre rivale, abbastanza da batterlo, secondo alcuni; tutto considerato, la formazione euroscettica potrebbe raccogliere il 7 maggio solo una manciata di seggi.

Non sarà questo il caso del secondo grande fenomeno delle elezioni inglesi: gli indipendentisti dello Scottish National Party (SNP), che potendo contare su un elettorato esclusivamente concentrato nei collegi scozzesi, vengono favoriti dal sistema elettorale. La delusione per il comportamento dei laburisti, ben radicati in Scozia ma piuttosto ondivaghi in occasione del referendum sull’indipendenza tenuto pochi mesi fa, e lo scarso fascino di Miliband – per di più londinese, mentre gli ultimi Pemier laburisti Tony Blair e Gordon Brown provenivano rispettivamente da Edinburgo e Glasgow – fanno ritenere possibile una straordinaria vittoria dell’SNP.

Gli indipendentisti potrebbero infatti impossessarsi di due terzi di tutti i seggi distribuiti in Scozia, cioè quaranta su sessanta, a tutto danno dei laburisti – che però a Londra appaiono come i loro unici possibili alleati. Sarebbe un vero e proprio terremoto politico: un partito che vuole staccarsi dal Regno Unito deterrebbe le chiavi del governo britannico.

È presto per dire se siamo di fronte alla fine del bipartitismo inglese. Il sistema elettorale penalizza indubbiamente le terze forze di dimensione nazionale che non sono capaci di ottenere grandi risultati, diciamo oltre il 20%, riducendo al minimo il loro peso parlamentare. Effettivamente, un esito deludente, condito magari dalla mancata vittoria nel suo collegio, potrebbe aprire una gravissima crisi all’interno dello UKIP di Farage. Allo stesso modo i Verdi, schierati su posizioni di una sinistra più radicale rispetto ai laburisti e titolati di un sostegno tra l’8 e il 10% degli elettori, arriveranno difficilmente a eleggere più di due deputati a Westminster.

È comunque molto probabile che nessuno dei due grandi partiti riesca a formare una maggioranza, all’indomani del voto. Un voto che secondo alcune stime farà registrare il più alto astensionismo di sempre – già cinque anni fa, solo il 40% dei giovani sotto i 25 anni si era recato alle urne: si tratta di un’insoddisfazione non estranea alla crescita delle terze forze.

Diversi scenari sono possibili. I conservatori potrebbero restare la forza più importante: Cameron conta su una popolarità maggiore rispetto a Miliband e gli inglesi sono convinti che i laburisti siano meno capaci di gestire l’economia: in molti credono che i benefici della ripresa, per ora solo nominali e concentrati nella fascia più ricca della popolazione, saranno presto fruibili da gran parte della società. L’opzione di coalizione a guida conservatrice includerebbe (nuovamente) i liberali, a cui potrebbero aggiungersi gli unionisti dell’Irlanda del Nord.

Se invece arrivassero in testa i laburisti, la situazione sarebbe più complicata: l’alleanza ufficiale con gli scozzesi di Nicola Sturgeon, che non perde occasione di strigliare Miliband per il suo scarso carattere, sembra esclusa al momento. Potrebbe però essere possibile un’intesa voto per voto, mentre i laburisti si associerebbero direttamente ai Verdi e agli autonomisti gallesi di Plaid Cymru. Concepito per assicurare maggioranze stabili e governabilità tranquilla al Regno Unito, il sistema britannico dovrà vedersela ora con quella che sembra una vera e propria transizione al multipartitismo.