Sembra che la montagna abbia partorito il topolino. La montagna in questo caso è l’enorme insieme di sforzi compiuti dai governi europei per mettere assieme l’agognato pacchetto di salvataggio per la Grecia, e il topolino è la reazione del mercato, che sembra avere ignorato completamente l’operazione. Si tratta di uno sviluppo apparentemente paradossale, e senz’altro preoccupante. Dopo mesi di discussione, Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale hanno lanciato un programma di aggiustamento che comprende una ambiziosa riduzione del deficit pubblico greco attraverso drastiche riduzioni alla spesa, compresi salari e pensioni dei dipendenti pubblici. E il programma gode di un finanziamento senza precedenti, che dovrebbe permettere al governo greco di sopravvivere senza accesso ai mercati per circa due anni: 30 miliardi di euro dal FMI (un nuovo record, 3200% della quota del paese beneficiario nel capitale del fondo) e 80 miliardi in prestiti bilaterali da altri paesi europei.
Perché dunque una reazione così scettica da parte dei mercati? La Grecia è dunque condannata ad una ristrutturazione del debito pubblico? Possiamo già dire che la Grecia è la nuova Argentina? Tra l’Argentina degli anni novanta e la Grecia oggi c’è, in effetti, un importante fattore comune: negli anni novanta il peso argentino era agganciato al dollaro statunitense con un cambio fisso; così come oggi, in maniera ancora più estrema, la valuta greca si trova incorporata nell’euro, e quindi con un cambio fisso rispetto a tutti gli altri paesi membri di eurozona. C’è però qui una differenza cruciale: a differenza del tasso di cambio fisso argentino, che venne abbandonato al momento del default, quello greco è—o dovrebbe essere—irrevocabile.
I mercati nutrono due dubbi fondamentali sul programma di aggiustamento lanciato in Grecia. Il primo è che il governo non sia in grado di portare a fondo le misure concordate a causa della forte opposizione popolare. I prossimi mesi saranno cruciali per vedere se il governo ha la forza politica necessaria oppure no. La seconda preoccupazione è più strutturale: la contrazione fiscale programmata renderà ancora più profonda la recessione; la ripresa economica dovrebbe venire trainata dall’export, ma la Grecia ha perso competitività per almeno il 30% negli ultimi dieci anni. Il modo più semplice e rapido per recuperare competitività sarebbe un deprezzamento del cambio, opzione però non aperta alla Grecia. In alternativa servirebbero misure di profonda ristrutturazione e liberalizzazione dell’economia, dal mercato del lavoro a quello dei servizi, che però ancora non compaiono nel programma del governo.
Per almeno i prossimi due anni, e con prospettive di tempi ancora più lunghi, la Grecia rimarrà in una recessione profonda, e il rapporto debito pubblico/PIL continuerà a salire. La grande scommessa è che tra due o tre anni l’economia riesca a riprendere sufficiente velocità da assicurare la sostenibilità del debito. I mercati al momento sembrano ritenere un tale scenario improbabile, e temono perciò che la Grecia sia comunque costretta a ristrutturare il debito, forse l’anno prossimo, forse tra due anni.
L’Europa, a questo punto, può solo aspettare e sperare di vincere la scommessa. Nel frattempo, però, si trova a dover contrastare il rischio di un contagio finanziario che sta mettendo sotto pressione soprattutto Portogallo e Spagna. Per il momento, il contagio è stato razionale e discriminante, e il movimento degli spread è stato proporzionale alla debolezza dei diversi paesi—con l’Italia che si è dimostrata resistente nonostante l’elevato rapporto debito/PIL. Il rischio che il nervosismo si trasformi in panico, però, non può essere ignorato. Il Portogallo è in condizioni migliori della Grecia, ed ancor di più lo è la Spagna, il cui rapporto debito pubblico/PIL è ancora al di sotto del fatidico limite del 60%. Le crisi di mercato, però possono trasformarsi in spirali viziose. I governi europei dipendono dal continuo accesso ai mercati per finanziare il loro disavanzo pubblico, ed un crollo della fiducia degli investitori, con conseguente chiusura dei mercati dei capitali, metterebbe qualsiasi paese con le spalle al muro.
È quindi necessaria una reazione rapida e decisa a livello sia dei singoli paesi che dell’Europa nel suo complesso. I paesi che si trovano nel mirino dei mercati, Portogallo e Spagna in primis, dovrebbero affrettarsi a mettere sul tappeto nuove misure per rafforzare la fiducia dei mercati. Le misure dovrebbero focalizzarsi più sulla flessibilità e competitività delle rispettive economie che sulla riduzione del deficit. Come è evidente dal caso della Grecia, gli investitori hanno capito benissimo che la capacità di continuare ad onorare il debito dipende ancor più dal potenziale di crescita economica che dalla pur necessaria disciplina fiscale. Meglio dunque lanciare riforme strutturali mirate a garantire maggior flessibilità nel mercato del lavoro, liberalizzare ulteriormente i mercati dei prodotti e servizi, migliorare il cosiddetto “business environment” e rilanciare la competitività . Le misure dovrebbero essere ambiziose, tali quindi da dare un segnale convincente della determinazione dei paesi in questione. L’Italia, per quanto finora risparmiata dai mercati, farebbe bene a muoversi sulla stessa strada, perché l’attuale combinazione di elevato debito pubblico e bassa crescita economica lascia ben poco spazio di manovra.
A livello europeo è necessario un profondo ripensamento dell’assetto istituzionale dell’eurozona. L’integrazione monetaria ha inevitabilmente portato all’integrazione fiscale, ma in maniera passiva, nel senso che il prezzo di una crisi del debito in un paese membro finisce ora per ricadere su tutti gli altri. Bisogna passare ad una integrazione fiscale “attiva”, sostituendo il fallito Patto di Stabilità con regole diverse che possano veramente assicurare la disciplina fiscale in tutti gli stati membri. La soluzione ideale sarebbe un sistema di limiti al disavanzo e debito pubblico basati su regole rigide e automaticamente sostenute da meccanismi legislativi a livello di ogni singolo paese; si ovvierebbe così al fatto che è impossibile in caso di difficoltà intervenire in maniera discrezionale e scavalcando la sovranità nazionale di uno o più paesi membri.
L’eurozona si trova a un bivio: o decide di accettare una maggiore integrazione anche politica, oppure rischia di andare incontro ad una progressiva disgregazione. Fino a un anno fa, l’idea che l’eurozona potesse spezzarsi sembrava una pure ipotesi accademica, oppure una scommessa estrema, “out of the money” da parte di qualche hedge fund. Oggi molti la considerano come non solo possibile, ma probabile. Senza maggiore unità politica, istituzioni europee più forti, ed un maggiore sforzo da parte di molti paesi per rafforzare la propria competitività, è difficile immaginare che la moneta unica possa sopravvivere. Nei primi dieci anni dell’euro abbiamo visto un processo di progressiva divergenza, anziché convergenza, nella performance di crescita e dei conti pubblici di molti paesi membri, che ha portato a disequilibri macroeconomici insostenibili all’interno dell’area. Se non si adottano rapidamente forti misure correttive, il rischio è che o paesi più deboli come la Grecia decidano di uscire per ottenere almeno un po’ di respiro tramite un deprezzamento del cambio, oppure che paesi più forti come la Germania decidano di abbandonare per non dover pagare il costo di continui bailout e il rischio di una eventuale deriva inflazionista.