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Il quadro greco tra politica ed economia

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Le immagini di guerriglia urbana giunte da Atene il 12 febbraio dimostrano che la crisi, in Grecia, non è più soltanto economica ma investe interamente la società e il sistema politico. Il piano di austerità, approvato dal Parlamento con 199 voti a favore e 74 contrari (su un totale di 300 parlamentari), prevede tagli per 3,3 miliardi di euro, ottenuti attraverso la riduzione degli stipendi minimi del 22%, il licenziamento di 150mila dipendenti pubblici entro il 2015, oltre a ulteriori privatizzazioni e liberalizzazioni.

Si tratta di misure difficili da digerire per un paese al quinto anno consecutivo di recessione (nel quarto trimestre del 2011 il PIL greco è diminuito del 7% rispetto all’anno precedente) e con una disoccupazione ormai oltre il 20%. Da qui la frustrazione dei cittadini, che faticano a credere nell’utilità dei sacrifici nuovamente richiesti.

La mancanza di speranza è certamente una delle cause alla base dell’esplosione di violenza che ha trasformato il centro di Atene in un campo di battaglia. Altrettanto forte è però la sfiducia nei confronti della classe politica, ritenuta la prima responsabile della situazione attuale. A fare le spese di questo sentimento sono soprattutto Pasok e Nea Dimokratia, i  partiti che dal 1974 si sono alternati al governo, e gli unici che hanno appoggiato il piano di tagli richiesto dalla troika per sbloccare i 130 miliardi di euro di aiuti che la Grecia attendeva. Entrambi hanno già pagato sul piano parlamentare. Sono stati, infatti, complessivamente 41 i deputati di Pasok e Nea Dimokratia che hanno votato contro il piano e che perciò sono stati espulsi dai rispettivi gruppi.

All’approssimarsi delle elezioni politiche, previste in primavera, nessuno vuole essere ritenuto responsabile di aver approvato misure tanto dure per il paese. Non a caso il partito di estrema destra del Laos ha tolto l’appoggio al governo Papadimos. I sondaggi danno in caduta libera Nea Dimokratia e Pasok, accreditati di un complessivo 30%; scende anche l’estrema destra del Laos al 4,5%, mentre crescono i partiti di sinistra, Sinistra Democratica, i comunisti del KKE e Syriza, tutti contrari al piano approvato.

Si tratta senza dubbio della fine del sostanziale bipartitismo che ha governato la Grecia dal 1974, anno della caduta del regime dei Colonnelli, e l’inizio di una fase politica estremamente incerta. Da una parte Nea Dimokratia e Pasok probabilmente non avranno i voti sufficienti per governare da soli: l’approvazione del piano di tagli sarà pagata anche nelle urne. Dall’altra sembra difficile che i partiti della sinistra formino un governo insieme: le loro proposte per uscire dalla crisi sembrano vaghe e caratterizzate da una certe dose di populismo. Il KKE rispolvera una rigida dialettica vetero-marxista tesa a contrappore il capitale e il lavoro, mentre Syriza è contraria a che la Grecia accetti ulteriori prestiti e chiede una moratoria di tre anni per il pagamento del debito.

Dato il complicato quadro politico e la grave situazione sociale in cui versa la Grecia, è apparso dunque sorprendente il rinvio dell’eurogruppo previsto il 15 febbraio per sbloccare gli aiuti. La motivazione ufficiale è stata la mancanza delle garanzie politiche necessarie alla concreta applicazione del piano di austerity.  In vista del nuovo incontro, fissato per il 20 febbraio, sono stati chiesti ulteriori impegni al governo di Atene: tagli per 325 milioni di euro, l’impegno scritto da parte di Samaras e di Papandreou (leader rispettivamente di Nea Dimokratia e del Pasok) di mantenere i patti anche dopo le elezioni di aprile, e l’accordo definitivo con i creditori privati.

Tali decisioni hanno provocato una forte tensione con la Germania: l’atteggiamento di Berlino ha spesso fatto pensare, in Grecia e fuori, all’esistenza di uno schieramento di paesi (tra i quali anche Olanda, Austria e Finlandia) pronti a vedere Atene fuori dall’euro. Le dichiarazioni del ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, secondo il quale la Grecia dovrebbe rimandare le elezioni e dare vita a un governo tecnico come quello di Monti in Italia, hanno ulteriormente esacerbato gli animi, tanto che il presidente greco Karolos Papoulias ha accusato il ministro tedesco di offendere la Grecia, mentre il ministro delle finanze Evangelos Venizelos ha chiaramente detto che alcuni paesi vorrebbero la Grecia fuori dall’euro.

Il governo di Atene ha comunque risposto positivamente alle richieste dell’eurogruppo. La sfiducia mostrata dai ministri dell’economia dell’Eurozona ha però ulteriormente indebolito il governo e i partiti che lo sostengono. Le nuove garanzie richieste rafforzano infatti l’impressione secondo cui nessun piano possa ormai salvare la Grecia.

L’eurogruppo del 20 febbraio si è quindi aperto in un clima di grande tensione, che è sembrata in parte svanire quando il presidente Jean Claude Juncker, alle 5 del mattino, ha annunciato l’accordo.  Il nuovo piano di salvataggio prevede aiuti per 130 miliardi, i quali saranno versati entro il 2014 e saranno distribuiti attraverso l’Efsf (European Financial Stability Facility), mentre solo a marzo si saprà in che modo parteciperà il Fondo monetario internazionale.

L’obiettivo è che la Grecia, entro il 2020, torni ad avere un rapporto tra debito pubblico e Pil poco superiore al 120%. Contemporaneamente è stato concluso un accordo con i creditori privati, i quali rinunceranno al 53,5% del valore nominale dei loro titoli, permettendo così una riduzione del debito di circa 100 miliardi, i quali saranno scambiati con una cedola che avrà un rendimento del 3% sino al 2014, del 3,75% fino al 2020 e del 4,3% dopo il 2020. Lo swap sarà tuttavia volontario, anche se l’eurogruppo spera in un’adesione attorno al 90%. Saranno poi tagliati gli interessi sul precedente piano di aiuti.

L’accordo prevede anche la rinuncia da parte della Bce dei profitti sui titoli del debito greco acquistati negli ultimi due anni, i quali saranno redistribuiti alle banche centrali nazionali che a loro volta li gireranno ai rispettivi governi affinché possano abbassare gli interessi del primo prestito concesso ad Atene. Questo complesso meccanismo permette alla Bce di evitare le normative che le vietano aiuti diretti agli Stati.

In cambio Atene dovrà accettare la presenza permanente della troika, che dovrà monitorare costantemente l’applicazione del piano e l’inserimento nella Costituzione di una norma sulla priorità dei pagamenti del debito. Sarà poi creato un conto bloccato, anch’esso controllato dalla troika, dove confluiranno gli interessi dei titoli greci, per avere la certezza che Atene non sia insolvente sulle future emissioni.

L’accordo pare dunque equilibrato. Da una parte esso ha il pregio di ridare speranza a un paese che era ormai prossimo al collasso, e dall’altra di rassicurare quei governi che erano più restii a concedere ulteriori aiuti. La Grecia dovrà comunque accettare una sostanziale limitazione della propria sovranità in ambito economico e finanziario. La presenza permanente della troika e la sua gestione esclusiva del fondo destinato a ripagare i creditori  avranno certamente un effetto negativo sulla popolazione greca.

Le prossime elezioni, da questo punto di vista, saranno un banco di prova importante per comprendere meglio gli effetti sul piano politico delle misure concordate dall’eurogruppo. Accanto ai provvedimenti più duri, serve ora cominciare a pensare anche a misure di crescita, senza le quali né la Grecia né l’Europa potranno uscire definitivamente dalla crisi. In questo senso appare un segnale importante la lettera in cui 12 governi europei (non quelli tedesco e francese però) indicano otto punti per rilanciare lo sviluppo da discutere al prossimo eurogruppo previsto per l’inizio di marzo.