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Il problema siriano e i paesi del Golfo

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L’attivismo della Lega Araba nei confronti della crisi siriana, che ha preso forma nelle ultime settimane, sembra assumere sempre più i contorni di un faccia a faccia tra il regime di Bashar al Assad e il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), dominato dalle iniziative di Arabia Saudita e Qatar.

Negli otto mesi di repressione delle manifestazioni antigovernative da parte del regime siriano, la linea compatta dei paesi del Golfo ha disegnato una parabola: mentre nella prima fase si puntava a un qualche compromesso, ora prevale la convinzione che per la Siria sia giunto il momento di una transizione politica.

Il passo decisivo della Lega Araba è arrivato dopo la seconda condanna ufficiale del monarca saudita verso la violenza del regime siriano. E’ stato poi il piccolo emirato del Qatar a chiedere, il 2 novembre, la convocazione urgente della Lega Araba al Cairo proponendo un piano di pace (di fatto, una sorta di ultimatum) per la fine della repressione e l’avvio di un dialogo nazionale con l’opposizione ad Assad.

Il regime di Damasco non ha voluto frenare violenza dell’esercito contro i civili neppure nel giorno della firma dell’accordo, e ciò ha portato, il 12 novembre, alla sospensione della Siria dall’organizzazione panaraba.

L’accelerazione tardiva – e forse inattesa – delle pressioni su Bashar al Assad non elimina il timore che l’eventuale caduta del regime possa innescare un effetto “spill-over”, soprattutto sotto forma di uno scontro tra sunniti e sciiti. E’ questo infatti uno degli assi della frattura siriana, con la maggioranza dei sunniti schierati contro la minoranza alawita al potere. E il fattore confessionale rappresenta un’enorme incognita per i sovrani della penisola arabica.

Rispetto alla questione siriana i paesi del Golfo si sono mossi con passo molto più incerto rispetto alle altre rivolte: in coincidenza con le prime proteste, il 15 marzo scorso, una delegazione saudita si era recata a Damasco per assicurare il presidente siriano che la volontà del re era quella di mantenersi estraneo a qualsiasi forma di ingerenza negli affari interni siriani. Ryad, che aveva “messo la firma” sull’intervento della NATO contro Gheddafi, voleva rassicurare Assad che non avrebbe avallato una replica siriana.

Con il persistere delle violenze, l’8 agosto il re saudita (subito seguito da Qatar, Kuwait e Bahrein) ha però richiamato in patria il suo ambasciatore “per consultazioni”, definendo “inaccettabile” il modo in cui il regime stava rispondendo alle contestazioni. La decisione ha seguito di pochi giorni la dichiarazione della Casa Bianca in cui Obama aveva chiesto al presidente siriano di lasciare il potere avendo perso ogni legittimità politica; una posizione a cui intanto si era allineata a sua volta la Turchia, con una svolta decisa a sostegno dell’opposizione siriana.

E’ a questo punto che il quadro regionale è mutato definitivamente  per i paesi del Golfo: il governo di Erdogan vede ormai nella sopravvivenza politica di Assad un ostacolo insormontabile al proprio ruolo nel mondo arabo, e l’appoggio al Consiglio Nazionale Siriano (CNS, nato il 2 ottobre proprio a Istanbul) è l’elemento chiave con cui Washington e soprattutto Ankara mirano a guidare la transizione in Siria.

Tradizionalmente, l’Arabia Saudita e il resto del Golfo consideravano Assad un free-rider regionale – soprattutto in virtù della sua alleanza con Teheran – che tuttavia restava vincolato agli ingenti investimenti e ai contratti con i membri del CCG, fondamentali per colmare le lacune di un’economia ultra-statalista e poco efficiente. E’ così che si controbilanciava l’influenza dell’Iran (il principale avversario dei sauditi).

Ora si è invece affermata la convinzione che, con o senza la Lega Araba, l’Occidente e la Turchia continueranno a perseguire l’opzione del cambio di regime a Damasco. Dunque, i paesi del Golfo tentano di recuperare un ruolo nel futuro della Siria non tanto per compiacere l’alleato statunitense ma anzitutto per non lasciare che sia la Turchia ad avere il monopolio su un eventuale “post-Assad”.

La Lega Araba non si è detta ancora pronta a riconoscere il CNS come autorità legittima – richiesta per ora avanzata dal parlamento del Kuwait – ma i contatti sono avviati. Intanto è stato elaborato un piano di protezione dei civili.

In questo quadro, il Qatar sta svolgendo un ruolo molto attivo (dopo aver partecipato alla missione internazionale contro Gheddafi in Libia al fianco della NATO). L’emirato mira a proporsi come interlocutore illuminato per i paesi occidentali e, nello stesso tempo, a fornire un modello di modernità agli stati arabi, anche attraverso il prezioso strumento della sua tv panaraba Al Jazeera. La crisi del regime di Assad pone gravi rischi per il Golfo, ma Arabia Saudita e Qatar tentano di sfruttare le opportunità che possono presentarsi per rilanciare forme vincenti di cooperazione panaraba.