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Il Presidente senza le parole giuste

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Un anno fa, nel momento più acuto e incerto della crisi finanziaria, Barack Obama entrava alla Casa Bianca mentre i Democratici assumevano il controllo del Congresso con una maggioranza di proporzioni rare. Il responso elettorale e lo sconvolgimento culturale portato dal crollo dei mercati facevano presagire scenari radicalmente mutati, e buona parte delle previsioni ruotavano intorno a tre assunti.

Il primo era che fosse terminato il lungo ciclo trentennale di egemonia politico-culturale del conservatorismo repubblicano. Svuotati di ogni residua energia creativa dal troppo lungo esercizio del potere e azzoppati dagli errori e l’impopolarità di George Bush jr., i conservatori statunitensi contemplavano traumatizzati il collasso dei mercati, nella cui voragine sprofondava il loro credo liberista e anti-statalista.

Il secondo assunto conseguiva in parte dal primo ma era ulteriormente rafforzato dalle tendenze elettorali e socio-demografiche. I Democratici, e Obama in primo luogo, riuscivano a connettere la loro base progressista con il centro indipendente dell’elettorato in un linguaggio di rinnovamento che risultava ampiamente maggioritario, in particolare tra i giovani. Vi erano molte delle premesse per uno di quei “riallineamenti” che in passato avevano consegnato una duratura preminenza sulla scena politica americana a un partito e alla cultura socio-economica che esso incarnava.

Infine molti auspicavano – in America come all’estero – che da queste condizioni potesse scaturire una nuova, efficace leadership statunitense capace di guidare o per lo meno coordinare lo sforzo multilaterale per aggredire sia gli urgenti dilemmi economici che gli altri problemi globali.

A distanza di un anno tutte queste aspettative sembrano messe in discussione, se non già frustrate. I Democratici subiscono arretramenti elettorali e divengono oggetto della sfiducia che la crisi economica ha disseminato nel corpo della società americana. Nel segmento centrale e decisivo dell’elettorato americano – tra quegli “indipendenti” che Obama aveva conquistato un anno fa – il timore del debito pubblico, dell’espansione delle funzioni dello stato e di nuove tasse sembra non minore di quello del fallimento dei mercati e della disoccupazione. E all’attesa ottimistica di una salda leadership di Obama si è sostituita un’incertezza talora perplessa ma spesso anche scettica o addirittura ostile.

In questo ribaltamento di prospettive c’è molto di fisiologico e contingente. La popolarità di qualsiasi presidente subisce un parziale, temporaneo appannamento alle prime prove di governo. Le condizioni economiche sono straordinariamente difficili e non può stupire che le ansie dei cittadini americani si torcano in frustrazione e impazienza. Né si può ovviamente dimenticare che l’amministrazione Obama è vincolata dalla terribile eredità lasciatale dalle guerre irrisolte e dal colossale deficit tendenziale che i Repubblicani accumularono durante la presidenza Bush.

Ci sono insomma ampi margini di correzione e miglioramento, così come i primi segni di un più avveduto cambiamento di rotta da parte della Casa Bianca. Ciò non toglie che nel corso di questo primo anno si è manifestata una carenza se non un vero e proprio errore di strategia politica.

L’Amministrazione Obama ha infatti puntato tutto sulla capacità di offrire risposte rapide e positive ai dilemmi della crisi con una raffica di provvedimenti amministrativi e legislativi: i salvataggi, lo stimolo, nuove politiche energetiche e soprattutto la riforma sanitaria. Non ha però incapsulato queste iniziative entro una narrazione coerente e persuasiva sia delle ragioni della crisi che della via per uscirne. Ha dettato un’agenda delle cose da fare, ma non ha delineato un percorso che le legittimasse in profondità. Per quanto paradossale per un presidente con un forte carisma retorico, Obama è fino ad oggi mancato proprio nel compito – eminentemente narrativo ed esplicativo – di dettare i toni del dibattito pubblico, delinearne il perimetro e fissare così i colori della percezione collettiva della crisi.

Al contrario di quanto ha fatto in politica estera, Obama non si è rivolto ai cittadini americani da quel “pulpito” presidenziale che in ogni crisi passata è stato fondamentale per costruire fiducia verso l’azione politica e consenso alla presidenza. Franklin D. Roosevelt era giunto alla Casa Bianca quando tre anni di depressione avevano ormai indelebilmente imputato tutte le sue difficoltà a Hoover e ai Repubblicani. E tuttavia il presidente non smise mai di reiterare il fallimento delle precedenti ricette conservatrici, di stigmatizzare i suoi avversari come stolidi portatori di vedute obsolete e pericolose, legittimando così la sua guida come l’unica strada realisticamente perseguibile. Analoga fu la tattica usata da Ronald Reagan, nei primi anni del suo mandato, per neutralizzare le molte perplessità che circondavano le sue politiche in un momento di acuta recessione. Elevando il suo predecessore Carter a sinonimo d’impotenza, e la cultura liberal a emblema di fallimento, Reagan riuscì a costruire un raffronto irresistibile tra un passato da dimenticare e un futuro positivo che non poteva che discendere dalle sue proposte. In tal modo si rese impermeabile alle critiche, mise all’angolo i Democratici e riuscì a far passare le sue misure di politica economica in un Congresso in cui egli non godeva di una maggioranza predeterminata.

Obama non ha voluto ricorrere a questa raffigurazione binaria, tutta bianco e nero. Non ha eretto la cultura liberista e il suo predecessore Bush a capri espiatori della crisi, fissandoli agli occhi del pubblico quali emblemi indelebili delle difficoltà del paese (Reagan non si sarebbe fatto mai vedere vicino a Carter; Obama invece ha invitato alla Casa Bianca proprio Bush – simbolo della disastrosa risposta all’uragano Katrina – per sollecitare l’aiuto umanitario ad Haiti !). Non ha colorato le proprie ricette dell’aura di inevitabilità che discende dalla colpevolizzazione delle ipotesi alternative.

Obama non lo ha fatto perché convinto che fosse necessario e possibile un approccio bipartisan alla crisi (oltre a una qualche sufficienza sulla solidità del consenso intorno ai Democratici). Ma così facendo ha rinunciato a definire il campo del gioco politico e le sue regole, a modellare toni e accenti dell’arena pubblica. E si è privato perciò della cruciale possibilità di porsi al di sopra della crisi e schermarsi dai suoi effetti politicamente abrasivi.
Ne è risultato l’accumularsi delle difficoltà emerse negli ultimi mesi. I sostenitori progressisti del Presidente, già spaventati dalla necessità di continuare la guerra in Afghanistan, sono disillusi dai crescenti compromessi sui termini della riforma sanitaria. Gli elettori indipendenti si sono ritrovati privi di un messaggio forte e persuasivo, e al loro desiderio di cambiamento si è sovrapposta la paura di nuove tasse e nuovi costi, in particolare in relazione a una riforma sanitaria spiegata male e negoziata ancor peggio.

Le conseguenze sono sotto gli occhi tutti, e rendono ben più difficile un’azione coordinata e coerente di governo della crisi. Il discorso politico anti-statalista, che appena dodici mesi fa sembrava delegittimato e moribondo, ha riacquisito una sua rabbiosa efficacia in segmenti importanti dell’elettorato centrista. La maggioranza democratica, già di per sé frastagliata e incoerente, si è mossa in modo via via più insicuro ed è sottoposta a tensioni centrifughe molto forti. La minoranza repubblicana si è ritrovata inaspettatamente alleggerita dalle enormi responsabilità della sua precedente azione di governo. Ha potuto così sottrarsi alla pressione per una collaborazione bipartisan costruttiva, e ha invece visto aprirsi la strada invitante di una potenziale rivincita, da cui l’intransigente ostruzionismo unito al più aggressivo radicalismo retorico.

Soprattutto, la crisi che era di Bush, dei Repubblicani e del liberismo conservatore è diventata agli occhi di molti la crisi di Obama. I destini politici della sua presidenza sembrano ormai dipendere dal ritmo e dall’intensità della ripresa economica. Se essa non sarà abbastanza rapida e robusta da riassorbire parte della disoccupazione e ridare fiducia all’elettorato di centro, la previsione al momento più probabile è quella di un arretramento dei Democratici e di una crescente inefficacia dell’Amministrazione, con tutti i risvolti d’incertezza, oscillazione e sbandamento che ne discenderebbero nell’azione di governo sia domestica che internazionale.

Non si tratta di un destino già segnato. Obama e i Democratici hanno ancora molte frecce al loro arco e possono ben ricalibrare la loro offerta politica. I trend socio-demografici continuano a operare a loro favore. Le vulnerabilità dei Repubblicani sono tante. Ma nell’anno trascorso fin qui il presidente ha perso – o meglio non ha usato – la possibilità di porsi al di sopra della crisi come portatore dell’unica ricetta credibile, e ne è quindi divenuto per molti aspetti prigioniero.

Further reading
Il testo del discorso sullo stato dell’Unione, Barack Obama, 27 gennaio 2010