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Il Partito Repubblicano tra resa dei conti interna e opposizione al presidente

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Non si erano ancora finiti di contare i voti del 6 novembre che già iniziava il dibattito sul futuro del Partito Repubblicano, sconfitto nei suoi sforzi di riconquistare la presidenza e il Senato ma vittorioso nel mantenere il controllo della Camera dei rappresentanti. Si tratta di un dibattito in cui si scontrano due posizioni: quella di chi vede il partito come un’organizzazione ormai minoritaria nella società americana, condannata a un ulteriore declino dalle dinamiche demografiche (le minoranze etniche sono in crescita e votano prevalentemente democratico, così come fanno i giovani) e quella di chi guarda alle elezioni del 2012 come a un incidente di percorso, causato da un candidato che non rappresentava i veri valori del popolo conservatore, incapace di mettere a punto una campagna elettorale tecnicamente efficiente.

Il dibattito si protrarrà sicuramente fino al 2016 e non è detto che venga risolto neppure allora ma, nell’immediato, è importante capire quale sarà l’atteggiamento della maggioranza repubblicana alla Camera: i deputati del GOP potranno scegliere una limitata collaborazione con il Senato e con il presidente, oppure l’ostruzionismo sistematico, come hanno fatto dal 2008 ad oggi. Il primo test della direzione in cui si muove il partito sarà il cosiddetto fiscal cliff di fine anno, cioè l’aumento contemporaneo delle aliquote fiscali per tutti e una drammatica riduzione della spesa pubblica. Tutti gli occhi sono puntati sullo speaker della Camera John Boehner, che già nel 2011 sembrava favorevole a un accordo con Obama in cui i Democratici avrebbero accettato tagli alle spese (incluso il sacrosanto Medicare) in cambio della promessa di futuri aumenti delle tasse. Nonostante le condizioni fossero estremamente favorevoli (l’80% dei risparmi avrebbero dovuto venire da tagli alle spese e solo il 20% da aumenti delle entrate fiscali) il gruppo repubblicano alla Camera rifiutò e il problema fu rinviato al 31 dicembre di quest’anno.

Anche se è possibile che un qualche accordo per evitare il fiscal cliff venga raggiunto nelle prossime settimane, nell’arco dei prossimi quattro anni rimane comunque probabile che i Repubblicani mantengano la linea di sistematico ostruzionismo seguita fin qui, per due ragioni: 1) Il sistema costituzionale degli Stati Uniti premia l’opposizione anziché il compromesso, soprattutto se, 2) La polarizzazione nasce dalla società e non dai politici.

Sul primo punto c’è ampio consenso tra i costituzionalisti. Il sistema disegnato nel 1787 aveva come preoccupazione principale quella di evitare la concentrazione dei poteri e fu accuratamente pensato per disperdere l’autorità governativa fra vari attori, rendendo impossibile agire a meno di un accordo tra più parti in causa. Tra l’altro Camera, Presidenza e Senato hanno scadenze temporali differenti per il loro rinnovo e ci sono ben poche azioni politiche che l’uno possa compiere senza il consenso e la collaborazione degli altri due.

I costituenti pensavano che tra gentiluomini ci si potesse (e dovesse) intendere “per il bene del paese” ma la forza di ricatto di chi si rifiuta di muoversi di un millimetro dalle proprie posizioni fu chiara già a Filadelfia, quando i delegati di alcuni stati del Sud minacciarono di abbandonare l’assemblea se non fosse stata accettata la loro richiesta di calcolare anche gli schiavi ai fini di determinare il numero di deputati alla Camera. In questo modo costrinsero alla resa gli abolizionisti e ottennero una sovra-rappresentazione che durò fino alla guerra di Secessione.

Negli ultimi quattro anni, i Repubblicani hanno usato con successo l’arma del filibustering al Senato e i negoziati sul tetto legale del debito pubblico alla Camera per paralizzare l’amministrazione Obama. Il loro scopo non era, in realtà, ottenere specifiche concessioni dal presidente bensì bloccare l’azione legislativa per poter poi accusare Obama di “non combinare nulla” e così impedirne la rielezione.

Di fronte al fallimento elettorale di questa strategia, oggi si dice che il partito potrebbe adottare posizioni più concilianti, in particolare sull’immigrazione. Questo però avverrà, solo a livello cosmetico, di public relations, perché le radici della radicalizzazione a destra del partito non nascono dal fanatismo ideologico di alcuni suoi dirigenti ma dalla polarizzazione della società americana, come appare chiaro anche a una semplice analisi dei risultati del voto per contea. Con in mano una mappa elettorale del dopo-6 novembre un osservatore può partire dal confine con il Canada nella contea di Cavalier (North Dakota) e procedere in direzione Sud attraverso il South Dakota, il Nebraska, il Kansas, l’Oklahoma e il Texas fino ad arrivare alla contea di Refugio, sul Golfo del Messico, senza incontrare una sola contea a maggioranza democratica. Ugualmente, il nostro viaggiatore potrebbe atterrare nella contea di Cimarron (Oklahoma) dove Mitt Romney ha ottenuto il 90,4% dei voti e procedere in direzione Est attraverso il Missouri, l’Arkansas, il Tennessee e, per trovare una contea a maggioranza democratica, dovrebbe spingersi quasi fino all’Oceano Atlantico, a Granville County in North Carolina.

Come sottolinea il professor Alan Abramowitz della Emory University in un paper ancora non pubblicato, i due partiti sono sempre più polarizzati fra zone urbane (Democratici) e zone rurali (Repubblicani). Sono sempre più divisi fra una base elettorale legata alle minoranze etniche (Democratici) e una legata alla popolazione caucasica (Repubblicani). Negli anni Cinquanta, la percentuale di voti del Partito Democratico che provenivano da elettori neri, latinos o asiatici era il 7%: oggi è il 36%.  Alcune di queste minoranze sono in rapida crescita demografica: i latinos erano meno dell’1% del corpo elettorale nel 1972 mentre quest’anno hanno costituito il 10% degli americani che sono andati alle urne. Visto che gli elettori repubblicani hanno una posizione duramente ostile verso gli immigrati, al punto di organizzare vigilantes negli stati di confine e costringere i loro rappresentanti a varare leggi incostituzionali sul controllo delle frontiere, come in Arizona, il 70% dei latinos ha votato per Obama nelle presidenziali.

La pratica del gerrymandering, il ritaglio delle circoscrizioni elettorali della Camera in base agli interessi di partito, rende i deputati più sensibili agli umori del loro elettorato che alle richieste delle leadership e questo fenomeno, accentuato dal meccanismo delle primarie dove votano solo gli elettori più politicizzati, è particolarmente visibile nel Partito Repubblicano.

Un ultimo fattore importante è la crescita, negli ultimi 30 anni, di un network di organizzazioni e lobby capace di autofinanziarsi indipendentemente dal partito (dalle talk radio alla National Rifle Association passando per Americans for Tax Reform e ciò che rimane del Tea Party). Questa galassia di militanti rifiuta ogni compromesso e minaccia di usare le primarie per metter fine alla carriera dei politici repubblicani che osassero arrivare a accordi con il “nemico”. Non si tratta di minacce a vuoto: il senatore dell’Indiana Richard Lugar, in carica dal 1977, fu umiliato nelle primarie del 2012 dal candidato del Tea Party Richard Mourdock, che ha poi perso nelle elezioni di novembre ma comunque ha messo fine alla lunghissima e prestigiosa carriera del predecessore.

Questa combinazione di fattori, e la profondità delle radici sociali della polarizzazione politica, fanno prevedere un secondo mandato di Obama in cui i risultati legislativi saranno probabilmente modesti.