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Il Pakistan in cattive acque

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Dopo l’alluvione che lo scorso agosto ha duramente colpito le province attraversate dal fiume Indo, crescono i timori di possibili ripercussioni negative sul quadro politico interno e sulla capacità di tenuta del governo pakistano. Una volta arginata la gravissima crisi umanitaria – che ha coinvolto circa 20 milioni di persone – la priorità di Islamabad è quella di mitigare il devastante impatto dell’alluvione sulla già disastrata economia del Paese. Il pericolo concreto è che una cattiva gestione della crisi possa determinare un deterioramento del quadro politico e di sicurezza interna, le cui conseguenze non tarderebbero a riflettersi sull’andamento della missione internazionale in Afghanistan. Monitorare la gestione degli aiuti internazionali, allora, non fornirebbe soltanto una risposta alla crisi in atto (evitando il profilarsi di un simile scenario) ma consentirebbe anche di spingere il Pakistan sulla via della stabilizzazione attraverso l’attuazione delle riforme economiche auspicate più volte dalle istituzioni internazionali.

Il disastro ha avuto un impatto oggettivamente enorme. Le vittime sono state 1800, ma il dato che impressiona di più è quello degli sfollati: circa 20 milioni di persone che hanno abbandonato le proprie abitazioni. Con il 14% delle terre coltivabili inondate e migliaia di capi di bestiame morti, si prevedono scarsità di generi alimentari e ingenti danni al settore agricolo, con particolare riferimento alle coltivazioni di cotone. La contrazione del settore tessile, il secondo comparto industriale del Paese e punta di diamante delle esportazioni pakistane, si rifletterà inevitabilmente sull’occupazione, visto il gran numero di lavoratori impiegati. È stato anche preventivato un aumento dell’inflazione, già al 13%.

Di fronte ad un’emergenza – la cui portata, a dire il vero, avrebbe messo in difficoltà qualsiasi governo – Islamabad non ha certo brillato per lucidità e tempestività d’azione, mostrando gravi carenze nelle operazioni di soccorso. Mentre, infatti, milioni di pakistani erano minacciati dalle acque, il presidente Zardari non rinunciava a visitare il Manoir de la Reine Blanche (il castello normanno di sua proprietà); alla seduta parlamentare che, ad inizio settembre, è stata dedicata alla crisi era presente appena il 10% dei deputati, segno evidente di un generale disinteresse. Il comando delle operazioni è stato assunto dall’esercito che ha condotto i soccorsi in maniera autonoma, senza il controllo dell’esecutivo. Anche per questo, la popolarità di Zardari e del PPP (Pakistan Peoples Party) – che secondo gli ultimi sondaggi sarebbe scesa addirittura al 20% – perfino calare ulteriormente di fronte alla rapida impennata di consensi registrata dall’opposizione e dagli alleati minori della coalizione di governo. Sale così al 71% il favore per l’ex premier Nawaz Sharif della PML-N (Pakistan Muslim League-Nawaz), che insieme al suo collega Nisar Ali Khan ha puntato il dito contro l’inefficiente performance di Zardari e del primo ministro Gilani. Da Londra, dove si trova in esilio, Altaf Hussain, leader del Muttanida Quami Movement (MQM), il terzo partito a livello nazionale, ha invece approfittato della tragedia per infuocare gli animi e invocare addirittura una “French-style revolution” contro i ricchi feudatari. Il MQM ha promesso anche la presentazione in parlamento di un disegno di legge per la riforma agraria.

Va detto che, al di là dei toni decisamente accesi, quella del leader di MQM non è affatto una voce isolata: Altaf solleva un tema centrale per l’ammodernamento della struttura sociale e lo sviluppo democratico del Pakistan. Infatti, l’anacronistico latifondismo cui è soggetto il Paese consegna il controllo dell’economia nella mani di pochi proprietari terrieri, appartenenti per lo più alla casta militare e alla classe politica. Il fatto, poi, che questi siano esenti dalla contribuzione fiscale determina un bassissimo livello di entrate, che si attesta intorno al 10% del PIL. Il dato ha già suscitato polemiche in ambito internazionale, tanto che il Fondo Monetario Internazionale  ha bloccato l’erogazione dell’ultima quota del prestito di 11,3 miliardi di dollari da cui dipendono in buona parte le finanze del Pakistan. In linea con il FMI, anche la Banca Mondiale ha fatto sapere, tramite il vice presidente per l’Asia Meridionale, Isabel Guerrero, che per Islamabad è giunta l’ora di attuare le necessarie riforme economiche in tema di accountability e transparency.

Anche sul versante della sicurezza, sono molteplici i fattori che rischiano di aumentare il livello di instabilità. Si pone, innanzitutto, il rischio che i gruppi militanti rafforzino i legami con la popolazione, fornendo assistenza nelle zone dove i soccorsi tardano ad arrivare. Lashkar-e-Toiba e Jaish-e-Mohammed si sono subito attivati nella raccolta di fondi e nella distribuzione dei beni di prima necessità alle vittime dell’alluvione (una situazione simile si era già creata all’indomani del terremoto che nel 2005 aveva colpito il Kashimir). Sempre con l’intento di attrarre l’attenzione i Tehrik-i-Taliban Pakistan hanno addirittura intimato a Islamabad di rifiutare gli aiuti internazionali e sono arrivati a minacciare gli operatori umanitari presenti in Pakistan. Sebbene risulti difficile credere che tali organizzazioni possano condurre operazioni di soccorso su vasta scala, bisogna scongiurare l’eventualità che essi sfruttino il malcontento della popolazione per attrarre consensi. A rendere plausibile tale ipotesi sarebbero anche le proteste indirizzate al governo centrale da parte di alcune province, in particolare Baluchistan, Sindh e Khyber Pakhtunkhwa, le cui amministrazioni hanno lamentato disparità nella distribuzione dei soccorsi. Non è da escludere che l’insofferenza delle popolazioni alluvionate, così come la crisi economica che caratterizzerà il post-alluvione, possa acuire le rivalità etniche latenti della società pakistana. Lo dimostrano gli scontri già avvenuti a Faisalabad (Punjab) e Jacobabad (Sindh) e la ripresa in grande stile degli attentati, che nel solo mese di settembre ha causato quasi 150 vittime tra i civili.

Allo stesso modo, la campagna militare NATO in Afghanistan rischia pesantemente di essere influenzata da questa situazione. Si pone, innanzitutto, il problema della distrazione delle truppe che l’esercito pakistano dovrebbe impiegare nelle operazioni di counter-insurgency, in supporto al contingente NATO, e che adesso sono destinate ai soccorsi. Si tratta di circa 60mila uomini, il cui operato rendeva, tra l’altro, possibile e sicuro il transito dei convogli di rifornimento per le truppe ISAF. Nel mese di settembre, in seguito alla chiusura del valico di Torkham, disposta da Islamabad dopo che un attacco aereo NATO aveva causato la morte di due soldati pakistani, si sono registrati attacchi quasi giornalieri ai convogli. Secondo alcuni, la chiusura del valico – nel frattempo riaperto dopo le scuse ufficiali da parte del comando americano – va inteso come un ulteriore segnale di  deterioramento dei rapporti tra USA e Pakistan.

Sembra certo che sarà molto più difficile convincere il Generale Kayani, capo dell’esercito pakistano, a mostrare un atteggiamento più “partecipativo” alla lotta contro i gruppi militanti: il Generale non mancherà certo di utilizzare il dato della carenza di truppe come ulteriore giustificazione al suo mancato impegno, quando Washington tornerà a pressarlo. Ancora più difficile fare previsioni sulla prevista offensiva nel Waziristan settentrionale.. 

Dalla prospettiva di Washington, diventa essenziale non solo scongiurare gli effetti negativi dell’alluvione sulla missione ISAF, ma evitare anche il deterioramento degli equilibri politici pakistani. Per fare questo, Washington dovrebbe – con l’aiuto delle istituzioni economiche e finanziare internazionali – vigilare sull’utilizzo degli aiuti internazionali per evitare che questi si disperdano.

C’è anche chi, come Bruce Riedel del Carnegie Endowment for International Peace, punta più sul commercio che sugli aiuti internazionali, affermando che Obama dovrebbe dichiarare un “freer trade with Pakistan a national security imperative“. Riedel, che ha peraltro contribuito all’elaborazione della New Strategy per l’Afghanistan, indica apertamente la via dell’integrazione regionale – quella dell’India – attraverso l’apertura di canali comunicativi e lo stimolo del commercio transfrontaliero.  

In questa prospettiva, Karachi, grande porto e centro finanziario del Paese, potrebbe giocare un ruolo fondamentale. La capitale del Sindh è l’unica vera metropoli del Pakistan. È la sede di numerose banche e genera da sola il 60% delle entrate fiscali nazionali e il 42% della produzione industriale. Inoltre, la sua posizione è strategica per lo sviluppo delle infrastrutture energetiche dell’Asia Meridionale: Karachi potrebbe essere uno degli snodi del gasdotto IPI (Iran-Pakistan-India), una pipeline che dall’Iran meridionale dovrebbe giungere a New Dehli ma la cui realizzazione si è arenata a causa della rivalità indo-pakistana.   

Una volta di più, guardando al Pakistan s’intravede uno Stato fortemente instabile, anche se esiste forse l’opportunità che emergano equilibri politici interni più favorevoli sia agli interessi occidentali che all’ammodernamento del paese. Nell’immediato, tuttavia, sembra cruciale soprattutto evitare che qualche nuovo indesiderato leader emerga dalle acque del dopo-alluvione.