Il Parlamento di Islamabad ha attribuito ai tribunali militari la competenza sul terrorismo di matrice religiosa, con il cosiddetto “21esimo emendamento” alla Costituzione e le modifiche alla legge sulle forze armate del 1952. La decisione approvata tra mugugni, distinguo e perfino lacrime, ma senza neppure un voto contrario, rappresenta non solo una svolta nel rapporto tra civili e militari pachistani, ma anche la prima conseguenza del parziale disimpegno americano dall’Afghanistan. Sullo sfondo si collega alla rapida evoluzione di strategia e capacità operative delle più estreme frange jihadiste, che va al di là della nascita dello Stato Islamico in Iraq e Siria e degli attentati di Parigi, configurandosi anche come una generale avanzata in tutta l’Asia meridionale.
Ad innescare gli ultimi sviluppi politici pachistani è stata la strage del 16 dicembre a Peshawar, in cui hanno trovato la morte 150 persone tra cui 136 bambini. È stato uno shock anche per un Paese assuefatto al terrorismo come il Pakistan, tale da imporre al governo guidato da Nawaz Sharif una reazione immediata, che antepone la necessità di reprimere alla difesa del diritto (questo il senso del 21esimo emendamento costituzionale) e lascia spazio al comprensibile ma improduttivo desiderio di vendetta della gente (fine della moratoria sulla pena di morte). Nel contempo si è trattato di un campanello di allarme per gli Stati Uniti. Per costruire il “dopo Afghanistan”, Washington aveva scelto di iniziare dall’India e invece si è vista costretta a riprendere in mano con urgenza il dossier pachistano, senza sapere come conciliare il principio del rafforzamento delle istituzioni democratiche nei Paesi amici con la necessità di non scoraggiare le iniziative utili a dare sostanza alla lotta al terrorismo.
Nondimeno la visita del Segretario di Stato John Kerry a Islamabad del 12-13 gennaio potrebbe aprire una nuova pagina della diplomazia americana, contrassegnando l’inizio del recupero del Pakistan dopo anni di crescenti incomprensioni. L’obiettivo è ostico anche nel caso – improbabile – in cui in Afghanistan l’attuale sistema di governo reggesse e le ragioni della ricostruzione prevalessero su quelle della guerra. Il terrorismo infatti ha in Pakistan un significato particolare. A partire dalla spinta verso l’islamizzazione delle istituzioni avviata dal regime militare di Zia ul Haq negli anni Ottanta, l’identità islamica da cui il Pakistan trae origine ha preso a intersecarsi col rafforzarsi di gruppi armati di ispirazione religiosa, non sempre controllabili ma ugualmente divenuti col passare del tempo parte integrante dell’ipoteca posta dai militari sulla vita politica del Paese (ad esempio perché facilmente strumentalizzabili in Kashmir). Da ciò è derivato l’eterno dibattito circa la natura interna o esterna del terrorismo in Pakistan. Da ciò inoltre una continua tensione, avvertita anche dai governi civili, in direzione di un nazionalismo centrato sull’Islam che si ripercuote sulle relazioni esterne, creando una barriera di sfiducia nei confronti dell’Occidente.
L’alleanza Washington-Islamabad deve scontare tutto questo e in più deve tenere conto della Cina. Anzi il Pakistan è uno degli snodi del complesso rapporto tra Stati Uniti e Cina, in cui si intersecano cooperazione e competizione tra i due super-grandi. Il Pakistan è indispensabile alla strategia di entrambi ed entrambi sono interessati a evitare che il Paese sia una fonte perpetua di squilibri. A maggior ragione paventano l’ipotesi che si trasformi in un failed state o il crogiuolo del terrorismo di matrice islamica. In questa delicata competizione indiretta, nell’ultimo periodo era sembrata prevalere la Cina, che ha fatto del Pakistan il suo corridoio verso l’Oceano Indiano e quindi un indispensabile partner nello sforzo di diventare una grande potenza marittima. Pechino ha sfruttato la sua capacità di offrire al Pakistan le infrastrutture di cui ha bisogno, la sua consolidata prassi della non ingerenza formale e soprattutto la sua ancor più consolidata inimicizia con l’India. I successi della Cina erano facilitati da una sorta di rinuncia degli Stati Uniti che muove dalla legge Kerry-Lugar-Berman del 2009 (aiuti militari condizionati da concreti risultati nel contenimento dei talebani, e per questo ridotti all’osso). Ora però si parla di un pacchetto di aiuti da 532 milioni di dollari, ancora non confermato; ma l’apprezzamento esplicitato da Kerry nei confronti dell’operazione antiterrorismo Zarb-i-Azb nel Nord Waziristan e i colloqui recenti con Rahil Sharif (Capo di Stato maggiore) sulla cooperazione nel campo della difesa appaiono un chiaro segnale. In più la visita di Kerry è stata un’occasione per enfatizzare l’importanza della conferenza che in marzo riunirà uomini d’affari pachistani e americani, per aprire la strada a un’ondata di investimenti statunitensi nel Paese asiatico. Insomma il disimpegno sta lasciando il posto ad una nuova linea strategica costruita ripensando agli errori commessi in Iraq e in Afghanistan, cioè nella guerra al terrorismo basata sull’intervento diretto.
Semmai il problema per Washington è avvicinarsi al Pakistan proprio mentre si rafforzano i legami con l’India del super-nazionalista Narendra Modi. Kerry è stato accolto a Islamabad da una bordata di denunce del sostegno che New Delhi fornirebbe al terrorismo allo scopo di indebolire il Pakistan e distrarlo sulle sue frontiere occidentali, così da fargli dimenticare gli oltraggi ricevuti sulla frontiera opposta (ovvero in Kashmir dove si moltiplicano sconfinamenti di truppe e scaramucce). Mentre il 12 gennaio il Ministro della Difesa pachistano, Khawaja Asif, affermava in un’intervista che l’India ha legami coi talebani ed è implicata nella ribellione del Baluchistan, le responsabilità indiane nelle attività sovversive in Pakistan erano, secondo fonti di stampa, al centro dei colloqui tra Kerry e Nawaz Sharif. Al Segretario di Stato americano non è restato che insistere sulla necessità di un dialogo tra Pakistan e India e sull’impegno americano a favorirlo. Kerry ha preferito sottolineare il valore politico del “forte consenso forgiato da Nawaz Sharif e i leader del Paese sulla importanza di combattere ogni forma di terrorismo” (nessun voto contrario in Parlamento). Una novità davvero significativa vista la frequente distinzione in passato tra “talebani buoni” e “talebani cattivi”. Quanto al 21esimo emendamento e norme correlate, Kerry è restato sulle generali. “Così come siamo vicini al popolo francese in queste drammatiche ore – ha detto – continuiamo a sostenere il popolo pachistano nella costruzione di un futuro liberato dalla minaccia dell’estremismo”.
La nuova normativa pachistana sul terrorismo in effetti crea qualche grattacapo agli americani perché rischia di sospingere indietro il Pakistan, verso un’epoca che si voleva finita. Anche all’interno suscita aspre polemiche, malgrado sia considerato complessivamente popolare. Anzi la sua ragion d’essere sembra proprio la sua capacità di dare respiro ad una classe politica che, pur presentandosi come alternativa ai militari, sul tema del terrorismo mostra tutti i suoi limiti operativi, compreso quello di non sapere attuare una riforma del sistema giudiziario criminale capace di rispondere alle necessità del momento senza deleghe in bianco proprio ai militari. Il cambiamento della Costituzione infatti incide sulla classica divisione dei poteri, perché sottomette quello giudiziario all’esecutivo, in cui vanno incluse le forze armate. I tribunali che esse gestiscono diventano di conseguenza emanazione del potere esecutivo.
Così dal Dipartimento di Stato americano giungono solo laconici commenti: “Riteniamo che sia importante che gli sforzi per contrastare il terrorismo siano compatibili con i principi del giusto processo”, si è limitata a dire la portavoce Jen Psaki. In Pakistan invece l’istituzione delle corti militari è stata apertamente criticata da più parti, sebbene al momento del voto in Parlamento nessuno abbia osato spingersi oltre l’astensione. “Suicidio politico” o “abdicazione dalle responsabilità democratiche” è stata definita dagli ambienti liberali che l’hanno vista come la prova di un fallimento. Critici anche i partiti religiosi, compresi quelli che fanno parte della coalizione di governo con la sola eccezione del MWM (rappresentante della minoranza sciita). Essi infatti contestano l’esplicito riferimento alla natura religiosa del terrorismo messo ora sotto accusa. Chiedono che tutti i gruppi terroristici siano posti sullo stesso piano, anche quelli mossi da motivazioni “etniche” e “nazionali”. Critico, non fosse altro che per accreditarsi come guida dell’opposizione, il Tehrik-i-Insuf, il movimento populista di Imran Khan.
In realtà anche all’interno delle forze politiche che hanno approvato il provvedimento, come il PPP di Asif Ali Zardari, e perfino che l’hanno concepito, ovvero il partito di Nawaz Sharif, ci si rende conto dei pericoli insiti nella delega data ai generali (seppure in teoria limitata nel tempo a solo due anni). Ma ci si sforza di credere che la prova di unità fornita dai “civili” possa costituire un buon contrappeso alle aumentate prerogative dei militari: attribuendo loro solo il compito di reprimere il terrorismo di marchio religioso, si spera di impedire che confondano eversione con opposizione e dunque di ripristinare un regime di tipo poliziesco e repressivo.