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Afghanistan: anno nuovo, vita nuova?

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Il 12 gennaio, il neo-Presidente afgano, Ashraf Ghani, ha finalmente annunciato la lista dei ministri del suo governo. L’impasse politica generata dalla condivisione dei poteri tra Ghani e Abdullah Abdullah (l’uomo che con lui ha corso per la presidenza e che, avendola persa, ha preteso e ottenuto un ruolo da Primo Ministro) ha superato i “cento giorni” del nuovo corso entro i quali Ghani aveva promesso non solo di presentare la sua squadra ma anche mostrare qualche risultato di programma. Il nodo è stato sciolto con qualche sorpresa. Dei 25 ministri, 13 li ha scelti Ghani (tra cui Difesa e Finanze) 12 li ha scelti Abdullah (e di un certo peso: Esteri, Interno, Economia, Sanità, Istruzione). E secondo il dettagliato conteggio di SadRoz Afghanistan, un’agenzia di comunicazione digitale locale, il governo di unità nazionale ha raggiunto solo quattro delle sue promesse, ha fatto progressi in 23 ma almeno altre 83 sono rimaste soltanto sulla carta. Insomma, una partenza molto difficile dopo una faticosa gestazione.

Proprio la lunga impasse è stata la prima sconfitta politica del nuovo Presidente – se non la seconda, dopo aver ceduto alle pressioni di Abdullah, per smorzare le quali è dovuto intervenire addirittura il Segretario di Stato americano Kerry. Questo quadro non ha certo rafforzato la posizione dell’uomo cui ora tocca affrontare lo scenario politicamente e militarmente più difficile cui l’Afghanistan si trova di fronte dal 2001. Quale che sia il giudizio sulla missione militare della forza multinazionale della NATO (ISAF), la sua conclusione ufficiale a fine 2014 ha gettato una parte del Paese in un’apprensione profonda che circonda un futuro incerto, sia sul piano della guerra – niente affatto conclusasi – sia sul fronte economico. Questo secondo versante è gravato da nubi che la Conferenza internazionale di Londra nel dicembre scorso non ha per nulla fugato anche se ha reiterato l’impegno a non lasciare l’Afghanistan da solo. 

Allarme economia
Uno dei primi allarmi sul dopo-ISAF è arrivato in effetti con la caduta libera dei prezzi sul mercato immobiliare, dove la vendita di case e terreni ha subito in alcuni casi un deprezzamento del 50%, a fronte di una stagnazione nella quale non si compra e non si vende. Il mercato immobiliare – luogo tradizionale della speculazione – non è per forza l’indicatore più importante ma la preoccupazione è evidente e si riflette in un apprezzamento notevole del dollaro sull’afghanis. Ciò è dovuto sì alla crescita in generale del biglietto verde ma anche ai segnali di debolezza di un’economia che, non bisogna mai dimenticare, si è retta finora sull’aiuto esterno per più di due terzi del PIL ufficiale.

Economia e guerra sono ovviamente molto legate. E non solo perché le commesse sul mercato nazionale stanno calando o orientandosi verso produttori non nazionali (è il caso ad esempio di una manifattura nazionale che forniva gli scarponi all’esercito afgano, fino a ieri pagati dalla NATO ma che oggi il Ministero della Difesa di Kabul preferisce comprare all’estero perché meno cari) ma anche perché il futuro degli stipendi a militari e funzionari pubblici è tutt’altro che roseo.

Secondo l’ufficio dello Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (SIGAR, l’agenzia pubblica americana che fa le pulci ai conti per la ricostruzione), Kabul non avrebbe abbastanza soldi per pagare in futuro il suo esercito. Soprattutto non li avrà nel 2024 quando teoricamente i prestiti esteri per la Difesa dovrebbero terminare. Secondo SIGAR, l’Afghanistan ha ben sette grosse aree di rischio (corruption/rule of law, sustainability, Afghan National Security Forces, on-budget support, counternarcotics, contract management e oversight access) una delle quali riguarda appunto le forze armate (ANSF), al momento composte da 352.000 uomini totali – tra esercito (ANA) e polizia (ANP) – e che la NATO ha proposto di ridurre a 228.500 entro il 2017.

Gli USA hanno speso più della metà dei soldi della ricostruzione (ossia 62 miliardi di dollari su 104) nel “ricostruire” proprio l’esercito e la polizia, una forza che – per quanto ridotta rispetto alle dimensioni del Paese e delle sfide da gestire – viene comunque a pesare per 4,1 miliardi l’anno. È una cifra a cui Kabul dovrebbe contribuire con 500 milioni fino dall’anno prossimo e che, teoricamente, dal 2024 dovrebbe pagare da sola. Ma poiché nel 2013 il governo è riuscito a incassare da tasse e dazi solo 2 miliardi a fronte di una spesa del budget statale di 5,4, è chiaro come il futuro diventi insostenibile. Kabul immagina di riservare alla spesa per le forze di sicurezza il 3% del budget, assumendo che il suo prodotto interno lordo cresca e con questo dunque anche quella percentuale. Ma se adesso a ripianare i conti ci pensa la comunità internazionale non è difficile immaginare che a fondi d’aiuto sempre più ridotti, Kabul si ritroverà ad avere sempre meno liquidità per i salari di soldati e poliziotti – a meno di defalcarli dai servizi o dagli stipendi degli impiegati dello Stato. Situazione davvero difficile, aggravata dalla crisi in Europa (poco propensa ad aprire i cordoni della borsa) e solo in parte compensata dagli aiuti di Pechino (sempre più presenti sul mercato interno) o di Delhi (che proprio recentemente ha promesso una donazione di 100 milioni di dollari per l’avvio di un piano di piccoli progetti di sviluppo locale). 

Negoziati e sicurezza
Se è difficile immaginare una soluzione che mantenga un esercito efficiente e paghi i funzionari pubblici per garantire la governance, la via d’uscita più logica resta quella di por fine velocemente alla guerra coi talebani – un conflitto il cui costo resta esorbitante. Ma qui le difficoltà sono di doppia natura: da una parte il governo non sembra fare grandi passi avanti (se non con annunci roboanti per alcuni fanti e comandanti della guerriglia che depongono le armi) anche se è difficile dire come proseguono o se esistono contatti segreti con i turbanti neri; dall’altra il fronte talebano si presenta estremamente frammentato e, secondo alcuni, addirittura con una aperta crisi di leadership dal momento che si mette persino in dubbio che Mullah Omar esista ancora. Il recente attacco alla scuola di Peshawar in Pakistan (oltre 140 morti assassinati da un commando dei talebani pachistani) ha dimostrato come il fronte guerrigliero sia diviso da logiche, tattiche e strategie molto differenti: non solo il sito ufficiale dei talebani afgani (che farebbe capo alla cosiddetta Shura di Quetta) ha condannato l’azione prendendone le distanze, ma la stessa cosa ha fatto per l’azione kamikaze che, qualche tempo prima, aveva ucciso – in Afghanistan – oltre 40 spettatori di una partita di pallavolo. La distanza tra talebani afgani e pachistani è nota, ma sembra emergere sempre di più una frattura interna alla guerriglia afgana che finora ha sempre cercato di mostrare un volto unitario.

Queste differenze nella guerriglia mostrano l’aspetto politicamente vulnerabile e possono far pensare a scissioni e dunque a una futura divisione tra un fronte propenso al negoziato e uno residuale di “duri e puri”; si pone però il problema del “con chi trattare”. In ogni caso, il fronte del nemico sembra davvero indebolirsi e ciò si associa a un altro elemento positivo: il tentativo, soprattutto pachistano, di distendere i rapporti tra i due Paesi. Kabul ha sempre accusato Islamabad di aver chiuso entrambi gli occhi sui santuari che, nel “Paese dei puri”, ospitano i guerriglieri afgani. Ma adesso è Kabul a chiudere gli occhi sui santuari dei talebani pachistani in territorio afgano. Ed è ormai evidente che solo la collaborazione tra i due governi – e non l’uso strumentale dei combattenti jihadisti – può mettere fine a un fenomeno che danneggia entrambi. Piccoli segnali che sembrano indicare che qualcosa potrebbe muoversi nella direzione giusta.