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Il nuovo ruolo dell’ASEAN negli equilibri asiatici

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L’eterogeneo gruppo di paesi raccolto sotto le insegne dell’ASEAN, apparentemente passivo dal punto di vista politico, è oggi chiamato quasi suo malgrado a svolgere un ruolo di rilievo nella ridefinizione degli equilibri in Asia orientale. Il gruppo è composto da Birmania, Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Singapore, Tailandia e Vietnam. Negli ultimi anni i rapporti dell’ASEAN con la Cina si sono fatti sempre più intensi, malgrado il contenzioso che divide Pechino da alcune capitali dell’area per questioni di sovranità nel Mar Cinese meridionale. A ragione, Hu Jintao ha potuto affermare che sono milioni i posti di lavoro creati dall’espansione cinese nei paesi che fanno parte dell’associazione, (Malaysia e Filippine in testa). Ma l’egemonia cinese (che ha spesso anche un risvolto di massiccia immigrazione) non è molto gradita. L’ASEAN potrebbe svolgere un ruolo significativo proprio nell’arginare questa avanzata, specie se trovasse un valido appoggio nel Giappone, ora che si annuncia finalmente pronto a rinunciare alle sue pratiche protezionistiche (come sottolineato a Davos dal premier Naoto Kan).

L’estate scorsa, proprio durante una riunione dell’ASEAN, Hillary Clinton aveva pronunciato parole che suonavano come una svolta nell’atteggiamento americano. Gli Stati Uniti, criticati nel recente passato per non avere prestato sufficiente attenzione al Sud-Est asiatico, tornavano a far sentire la loro voce, assecondando le preoccupazioni dei paesi ASEAN di fronte a quella che viene percepita come una crescente aggressività cinese. Washington ha così riaffermato espressamente che i suoi interessi nazionali sono in gioco nella regione. Ciò rientra peraltro in un disegno più ampio, visto che dalla prospettiva americana si è registrata una certa convergenza temporale della crescita del “fattore Cina” con le nuove minacce emerse nella penisola coreana. Si spiegano così i rinnovati sforzi per fondere le due fondamentali alleanze bilaterali (USA-Giappone e USA-Corea del Sud) in una organica alleanza a tre, meno costosa e più efficiente. Un tale ottica di ri-equilibrio dell’ascesa cinese, l’ASEAN acquisisce un nuovo ruolo potenziale, come dimostrato anche dall’ingresso a pieno titolo (dallo scorso ottobre) degli Stati Uniti nell’East Asia Summit, il foro di dialogo incentrato appunto sull’ASEAN che è stato lanciato nel 2005.

In un contesto così dinamico, l’ASEAN potrebbe essere quasi costretta ad uscire dalla sua passività, modificando una posizione che fino ad oggi si è caratterizzata per un fin troppo palese tentativo di sfruttare la rivalità tra le maggiori potenze per ottenere vantaggi immediati e tangibili – sia in termini di aiuti allo sviluppo sia di copertura strategica. Si pensi, in particolare, al cospicuo flusso di aiuti proveniente dal Giappone ma anche, più recentemente, all’area di libero scambio con la Cina.

Resta inoltre valido l’impegno dei membri dell’ASEAN a trasformare entro il 2015 l’associazione in una Comunità (e una formula spesso utilizzata aggiunge: “sul modello della Comunità Europea”). L’obiettivo è dunque di andare oltre il semplice formato di mercato comune, anche se gli ostacoli da scavalcare restano molti: in particolare, vi sono i differenziali di sviluppo economico, che sono amplissimi nei casi estremi (Singapore e Laos) ma sono comparabili a quelli intra-europei per la maggior parte dei 500 milioni di abitanti nei dieci paesi membri. A ciò si aggiungono le profonde diversità culturali, specie per quanto riguarda la contrapposizione islam-buddhismo, e le differenza tra i sistemi politici – dal Vietnam che resta dominato dal partito comunista alla Birmania della giunta militare, passando attraverso democrazie più o meno compiute e credibili. Soprattutto, c’è da superare quella barriera di diffidenza nazionalistica che ha posto, come paradossale cemento dell’ASEAN, il principio di non interferenza: principio che è stato quasi sempre rispettato e che oggi si circostanzia nella insistente richiesta a Stati Uniti e UE di abrogare le sanzioni che colpiscono la Birmania.

È però ormai diffusa la consapevolezza che questo “metodo ASEAN” potrebbe non essere più al passo coi tempi. La non ingerenza resterà un dogma politico anche perché nell’area ASEAN l’interpretazione del concetto di universalità dei diritti umani è del tutto analoga a quella cinese. Ciò premesso, l’obiettivo di fondo è ora trovare spazi comuni nel campo della sicurezza, in modo da evitare di essere alla mercé di questo o quel protettore. Altro dato incoraggiante è che l’ASEAN mostra segni di evoluzione nei rapporti tra i suoi membri, per cui si profila una leadership regionale che secondo molti analisti è indispensabile per traghettare l’associazione dall’attuale assetto amorfo ad una reale capacità di influenza e di controllo. Il paese-chiave è in tal senso l’Indonesia: non solo il paese di gran lunga più popoloso, ma anche in prospettiva il più attivo economicamente (non è un BRIC, ma c’è chi lo pronostica in quel ruolo). Sul piano politico, ha trovato stabilità in un quadro ragionevolmente democratico, e sta trasformando la sua enorme dispersione in geografica ed etnica in una forza espansiva. L’Indonesia di oggi gode inoltre dell’appoggio degli Stati Uniti (dimostrato dalla fine dell’embargo militare oltre che dalla recente visita di Obama), e questo è certamente un atout non trascurabile.

La crescente importanza dell’ASEAN sembra dimostrata dal fatto che essa costituisce il perno di ogni iniziativa multilaterale che riguardi l’Asia orientale (eccettuate le trattative, peraltro finora ben poco produttive, sulla crisi coreana). In passato, le grandi potenze regionali – il Giappone, gli Stati Uniti, poi la Cina stessa – hanno sostanzialmente applicato lo schema delle alleanze a raggiera (hub and spokes) nella difficoltà di uscire dal bilateralismo. L’ASEAN fornisce oggi una possibile alternativa, in quanto raggruppamento che si propone come hub, cercando di evitare che le rivalità tra le maggiori potenze si trasformino in aperta conflittualità.