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Il modello Germania e le realtà dell’interdipendenza

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Se c’è qualcosa che la crisi ha reso davvero evidente, è che l’Europa deve ricalibrare il proprio modello economico. Ma mentre la maggior parte dei paesi dell’UE tende a vivere al di sopra dei propri mezzi, consumando e importando troppo in relazione alle attuali scelte pubbliche e private di risparmio e spesa, la Germania ha il problema opposto. La sua poderosa e proverbiale capacità di produrre ed esportare, alla base della stupefacente crescita tedesca degli ultimi anni, sembra aver reso il paese troppo dipendente dalle incertezze dei mercati internazionali.

La Germania era stata capace di riprendersi brillantemente dal crollo mondiale del 2008-9, recuperando quasi in un solo anno i livelli di produzione perduti durante il periodo peggiore della crisi. Dopo aver segnato un aumento del PIL del 4,2% nel 2010 e del 3% l’anno successivo, gli uffici statistici di Berlino hanno dovuto però registrare, nel periodo più recente, una crescita inferiore all’1%: la Germania è scesa sotto ai ritmi di crescita americani, che precedentemente erano stati doppiati, e si è attestata pericolosamente vicino ai valori medi della malconcia eurozona.

Due elementi principali sono all’origine della frenata tedesca, entrambi fondamentalmente connessi con le caratteristiche del modello economico nazionale. In primo luogo, a partire dal 2012, l’export tedesco, che appariva inossidabile alle tendenze economiche che influivano negativamente sul resto del continente e del mondo, al contrario ha sofferto a causa di fattori internazionali. L’aumento del PIL del 2010-11 si basava infatti sulla crescita della domanda mondiale per i prodotti della manifattura tedesca di precisione, in particolare le macchine utensili richieste dai BRICs per i propri vasti programmi di industrializzazione.

Bisogna ricordare, infatti, che l’industria tedesca – sia i suoi grandi colossi, sia le innumerevoli piccole e medie imprese specializzate nella produzione di componentistica di alto livello – ha intrapreso dal 2000 in poi un severissimo processo di contenimento dei costi e aumento della competitività. In quel periodo, in Germania si considerava infatti il tasso di cambio dell’euro troppo debole: di fronte a un’economia nazionale ancora alle prese con i traumi finanziari della riunificazione e alle paure innescate dallo scoppio della bolla informatica, si temeva che l’economia del paese avrebbe rischiato il collasso perché troppo esposta alla concorrenza estera.

Il processo ha consistito in massicci investimenti in tecnologia, ma anche e soprattutto in una forte riduzione del costo del lavoro, che ha ricordato quella avvenuta durante gli anni ’80 nel Regno Unito di Margaret Thatcher e negli Stati Uniti di Ronald Reagan. Il necessario quadro legislativo è stato offerto dalle riforme approvate durante il cancellierato del socialdemocratico Gerhard Schröder, che hanno assunto il nome di Agenda 2010. Se Schröder pagava con una dura sconfitta elettorale (2005) le sue politiche – oggi incensate da Angela Merkel – grazie al congelamento o alla diminuzione dei salari l’industria tedesca riusciva non solo ad evitare le delocalizzazioni che nello stesso periodo smembravano il tessuto industriale di altri paesi europei, ma anche a scalare le classifiche di competitività a livello mondiale.

Dal 2011, la Germania è l’unico paese del mondo che vende alla Cina merci dal valore maggiore di quelle acquistate. Ma la domanda cinese, nel 2012, si è raffreddata: sia a causa dell’insostenibilità di alcuni settori di quella economia, come ad esempio l’immobiliare; sia paradossalmente per la prolungata stagnazione europea (l’Europa è uno dei principali mercati di vendita delle merci cinesi). L’incertezza causata dagli Stati Uniti sui mercati mondiali, per la quasi-paralisi della politica interna sulle questioni fiscali e di bilancio, ha inoltre contribuito a frenare le importazioni dalla Germania: nei primi tre trimestri del 2012, l’aumento delle vendite in USA e Asia rappresentava il 70% dell’intera crescita dell’export tedesco.

La seconda ragione, che dimostra l’interdipendenza tra i partner economici dell’UE, è riconducibile all’attuale fragilità di alcuni membri dell’eurozona. Questa costituisce lo sbocco del 40% delle merci vendute dalla Germania fuori dai propri confini; le crisi di bilancio e di indebitamento che colpiscono soggetti pubblici e privati nel sud del continente, oltre che sugli ordinativi, hanno finito per influire negativamente anche sui progetti di sviluppo tecnologico delle imprese tedesche.

Condizionata dall’altalenante andamento della situazione internazionale, l’economia tedesca soffre anche perché le riduzioni del costo del lavoro, ormai concrete da un decennio, comportano una difficile espansione dei consumi interni. Un rafforzamento delle possibilità del mercato locale (più di 80 milioni di abitanti) potrebbe supplire alla debolezza dell’export; invece, nonostante l’aumento dei livelli di occupazione – i disoccupati in Germania sono soltanto il 6,9% della popolazione attiva, poco meno che negli Stati Uniti, molto meno che in Francia – si registra un inaspettato aumento delle diseguaglianze. Mentre il boom delle esportazioni ha fatto la fortuna di regioni un tempo relativamente povere, come Baviera e Baden-Württemberg, le condizioni di vita nelle aree urbane peggiorano: un quarto di tutti i poveri del paese è concentrato nelle sole città di Berlino, Amburgo, Dortmund, Brema, Lipsia e Duisburg.

Secondo le previsioni di alcuni, gli alti livelli di occupazione faranno sì che gli stipendi crescano e lo squilibrio dell’economia tedesca (la sua eccessiva dipendenza dall’estero) si corregga naturalmente. I recenti diffusi aumenti salariali per i metalmeccanici, e le discussioni sul salario minimo, sembrano confermare questa visione. Tuttavia, l’export è ancora di gran lunga il primo fattore di crescita economica per la Germania: il dimezzamento delle stime del PIL per il 2013 (da +0,8 a +0,4%) ha coinciso infatti con la diminuzione dell’eccedente commerciale da 16,2 a 13,1 miliardi di euro da luglio ad agosto, dovuta al rallentamento di Cina, India e eurozona, e non compensata da un’espansione del mercato interno.

Il peso di Stati Uniti e UE sulla bilancia commerciale tedesca non rende troppo rosee le prospettive future: perché la Germania riacquisti lo smalto che aveva nel 2010-11, non solo i BRICs dovrebbero ritrovare lo slancio perduto negli ultimi trimestri, ma anche il Nord America e soprattutto l’Europa dovrebbero avviarsi verso un periodo stabile di espansione economica.

È difficile che Berlino riesca a correggere i propri squilibri da sola. Intanto perché si tratta di caratteristiche strutturali del proprio sistema economico, in parte risalenti addirittura alla stessa nascita dello stato tedesco e connaturate ad esso. Poi perché il contesto europeo è cambiato profondamente: nei decenni passati la crescita dell’indebitamento privato in alcuni stati europei (come la Spagna o la Grecia) andava di pari passo con la crescita, in quei paesi, delle esportazioni tedesche; oggi, quell’equazione non è più possibile, dato il congelamento dei prestiti bancari e le riduzioni salariali in atto. Inoltre, la disoccupazione in crescita ai quattro angoli dell’UE sta riversando in Germania e nei paesi con maggiore domanda di lavoro una nuova ondata di immigrati, destinata a complicare le dinamiche sociali e finanziarie nelle aree più ricche del continente.

La rielezione di Angela Merkel è stata salutata in tutta Europa come l’evento capace di sbloccare, a livello comunitario, i necessari cambiamenti economici e politici. L’interdipendenza dei paesi europei è ormai profonda, così come la presenza di squilibri reciproci, consolidati e crescenti; anche la Germania avrebbe molto da guadagnare dalla tanto attesa riforma del funzionamento dell’UE.