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Il mercato immobiliare americano tra la ripresa e l’eredità sociale della crisi

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L’America sembra uscire finalmente, e durevolmente, dall’incubo del collasso immobiliare: almeno questo è quanto spera l’amministrazione Obama. Secondo i dati disponibili, nel 2012 i prezzi delle case sarebbero cresciuti in tutte le aree metropolitane attestandosi su un incremento medio che, a livello nazionale, avrebbe raggiunto il 7%. Si tratta di una ripresa, certo. Ma da condizioni iniziali che erano e rimangono disastrose. Dal 2006 i valori immobiliari si sono ridotti del 30%. Trilioni di dollari di ricchezza delle famiglie sono stati cancellati dallo sgonfiarsi della bolla, con effetti particolarmente gravi su alcune componenti demografiche, a partire da ispanici e latinos. Cinque milioni di persone hanno perso la loro casa perché pignorata; ad oggi, ancora più del 20% dei proprietari si trova a pagare mutui il cui valore eccede quello della casa per la quale era stato originariamente contratto. Intere aree residenziali sono state squassate dall’esplodere dei pignoramenti e dal crollo del mercato, con effetti gravi non solo sulla coesione sociale di quartieri e città ma anche sulle condizioni di bilancio delle relative amministrazioni che basano una parte consistente del proprio gettito sul prelievo immobiliare.

I recenti dati confortanti possono far pensare che il peggio sia passato e che si possa tornare al business as usual, e che alcune dolorose domande emerse nel bel mezzo della crisi possano essere dimenticate. Al di là di quelle ormai molto note relative alla finanziarizzazione dell’economia, negli anni della grande recessione si sono poste questioni altrettanto importanti – e intimamente legate alle prime – cui prima o poi il governo dovrà rispondere. In particolare, sostenitori democratici e repubblicani di un sessantennio abbondante di politica bipartisan a sostegno della  homeownership di massa si sono dovuti chiedere se sia ancora sostenibile un così importante ruolo dello stato nel credito immobiliare e, ancora di più, se l’obiettivo della politica abitativa federale possa ancora essere quello della casa di proprietà per tutti.

Di fronte alla crisi di questo credo bipartisan, paradossalmente gli argomenti della sinistra e della destra radicali – sebbene per ragioni opposte – hanno largamente coinciso: la sinistra radicale ha stigmatizzato i costi sociali imposti dall’imperativo dell’onorare debiti contratti in modo spesso fraudolento e ovviamente l’uso di una montagna di risorse pubbliche per salvare il sistema finanziario (dal programma TARP in avanti); la destra radicale ha invece additato l’invasione di campo dello stato – che, lo ricordiamo, è arrivato a nazionalizzare i giganti Fannie Mae e Freddie Mac – e invocato il ruolo del mercato nel risolvere i suoi stessi problemi ripristinando una condizione di equilibrio. Per socialisti, attivisti di Occupy Wall Street e per sparute frazioni più radicali dell’establishment democratico, la crisi poteva essere un’occasione per assestare un colpo efficace alla pervasività della proprietà privata della casa e al suo uso come strumento di accumulazione finanziaria. Viceversa, per libertari e liberisti ortodossi, molti dei quali attivisti dei tea parties, a prevalere era la prospettiva di un grand soir rivoluzionario fatto di fallimenti bancari e individuali che avrebbe ripulito il mercato dai deboli e dagli assistiti. Da una parte, in sostanza, s’invocava la relativizzazione dei meccanismi di mercato, dall’altra la loro assolutizzazione. Entrambe le opzioni sono rimaste molto marginali, e ha prevalso la strada di una ristrutturazione assistita del mercato che aiutasse (molto) le banche e poco (i proprietari in difficoltà).

Nel corso della recente campagna presidenziale sia Obama sia Romney si sono tenuti lontani dal tema, evitando di offire piani dettagliati sulla gestione della crisi e sul futuro delle politiche abitative. Per la verità, in qualche occasione, Romney ha invocato politiche liberiste che permettessero al mercato immobiliare di precipitare liberamente e di auto-correggersi.  La sua sconfitta lo ha sollevato dall’onere di doversi assai probabilmente smentire nell’azione di governo: fra i sostenitori di Romney, infatti, c’erano anche interessi finanziari non molto sensibili alla “purezza” del mercato ma, piuttosto, alla preservazione dei loro margini e quindi in più di un caso dell’intervento statale. Obama, da parte sua, non ha parlato molto di housing in campagna elettorale. Se c’è un’area di policy in cui il presidente ha praticato, nonostante periodici colpi di testa retorici, una linea centrista è proprio quella della gestione della crisi immobiliare.

Si tratta di un limite che la sinistra del Partito democratico ha vissuto con molta sofferenza. Ricostruire la classe media non poteva che essere anche una questione di case, oltre che di lavoro e di ritorno alla produzione. Una gestione democratica – fatto salvo il citato consenso bipartisan sull’esigenza di tenere in piedi il sistema – doveva distinguersi per l’impegno a tenere nelle proprie case il più alto numero possibile di americani.  Questo, fin dalla campagna del 2008, è stato ovviamente il campo di Obama, un campo sul quale sembra avere complessivamente deluso. Il presidente ha di fatto scartato l’idea – radicale – di un abbattimento del debito delle molte famiglie finite underwater, ovvero trovatesi nella spiacevole condizione di dover onorare debiti contratti per un bene che in molti casi aveva perso più del 50% del suo valore iniziale. Fin dal 2009 Obama ha puntato su una congerie di programmi federali che avevano l’obiettivo di ristrutturare il debito rendendolo più sostenibile: l’operazione è in parte riuscita sebbene in numeri che, complessivamente, sono statigiudicati inadeguati sia da molti community advocacy group sia da osservatori e analisti. Al di là del dato quantitativo – i programmi hanno coinvolto un numero di proprietari minore del previsto – rimane la condizione difficile di quei milioni di americani che pur avendo ristrutturato, grazie all’aiuto del governo, il proprio debito si trovano comunque in una situazione di negative equity di cui solo in parte possono essere considerati responsabili. Una condizione che peserà sul loro livello di vita e sull’ammontare di risorse che saranno in grado di impiegare nella formazione dei loro figli. Purtroppo, anche altri programmi dell’amministrazione Obama che avevano l’obiettivo di spingere le banche a riconsiderare centinaia di migliaia di decisioni di pignoramento e.l’avvio di una sorta di super-procura federale, guidata da un giudice battagliero, chiamata a indagare sui comportamenti fraudolenti nell’ambito del credito immobiliare  non sembrano aver prodotto i risultati sperati. Tanto da far pensare ai critici che alcune di queste iniziative non erano altro che specchietti delle allodole per una sinistra delusa da centrismo di Obama nella gestione della crisi immobiliare.

Ora l’idea che, quantomeno in parte, il debito immobiliare privato vada non solo ristrutturato ma anche abbattuto sembra essere nuovamente presa in considerazione dalla Casa Bianca. Il consenso bipartisan sulle politiche abitative si reggeva sul principio chiave della superiorità del mercato (sebbene abbondantemente assistito, incentivato, e perfino drogato) e quindi della sacralità dei debiti, che andavano sempre onorati anche al prezzo di costi sociali immensi e di sconquassi della finanza pubblica. Non a caso, la Federal Housing Finance Agency – guidata di fatto da un conservatore – vede come un pericolosissimo moral hazard l’ipotesi  di un nuovo orientamento che, nel secondo mandato di Obama, sancisse l’illusorietà della ricchezza ancora veicolata da milioni di mutui immobiliari procedendo all’abbattimento guidato del loro valore. Chi vorrà infatti onorare i propri debiti – si chiedono gli ortodossi –se lo stato, in qualche caso, ne favorirà la svalutazione per impedire i pignoramenti? È questo probabilmente il cuore della questione sul fronte della gestione degli effetti della crisi. Mentre su quello del lungo periodo, la questione fondamentale è quella della riforma del ruolo, gigantesco, del governo federale nel credito immobiliare e nel mercato abitativo  Nonostante quasi tutti riconoscano che, su entrambi i fronti, siano necessari interventi che rappresentino una dipartita più o meno brusca dal consenso bipartisan degli ultimi decenni , sarà comunque molto difficile sia per Obama sia per i Repubblicani portare avanti riforme che, sebbene di segno diverso, potrebbero avere effetti cataclismatici: non solo sul funzionamento del credito immobiliare, ma anche sull’identità sociale del paese.