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Il Mali e il Sahel a un anno dall’intervento francese

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Sono passati ormai dodici mesi dall’inizio dell’operazione militare nel nord del Mali denominata “Serval”, a guida francese. Fu infatti in seguito alla risoluzione 2085 del Consiglio di Sicurezza ONU del 20 dicembre 2012, che la Francia e i suoi alleati (soprattutto Ciad e Nigeria per l’Africa, e Gran Bretagna per l’Europa) decisero l’intervento per contrastare l’alleanza tra milizie tuareg e forze islamiste dell’Azawad, il sedicente stato autoproclamatosi indipendente dal Mali nell’aprile 2012.

Le prime manovre sul campo portarono, già verso la primavera del 2013, alla progressiva riconquista delle principali città del nord, come Timbuktu, Gao e Kidal, cadute sotto il controllo prima dei Tuareg e poi delle sigle islamiste (Ansar Dine, MUJAO e AQMI). Queste, le quali, dopo aver rotto l’alleanza con gli stessi Tuareg, avevano addirittura proclamato la shari’a nella regione.

Da quel momento, il teatro delle operazioni militari si è spostato ancora più a nord, verso le alture degli Ifoghas, la zona montuosa al confine algerino che ormai costituisce un solido nascondiglio per i mujaheddin.

Questi avvenimenti principali sono stati raccontati anche dai mezzi d’informazione almeno sino alla primavera scorsa, quando altre crisi, quella siriana su tutte, hanno allontanato i riflettori dal Sahel. Ma cosa è accaduto in Mali da allora? Il paese è davvero scampato al pericolo dell’islamizzazione?

Di certo non sono mancati sviluppi interessanti: i tuareg hanno firmato una tregua con le autorità di Bamako; si sono svolte le elezioni presidenziali; la missione diplomatica di Romano Prodi come inviato speciale delle Nazioni Unite è giunta al termine del mandato mentre le truppe francesi, contrariamente a quanto preventivato un anno fa, sono ancora sul campo. Ognuno di questi fattori contribuisce a dare forma al Mali odierno e costituisce un elemento chiave nella dialettica degli avvenimenti futuri.

Senza dubbio l’operazione Serval ha avuto l’enorme merito di creare terreno fertile per le elezioni presidenziali, alle quali solo pochi osservatori credevano davvero: queste si sono svolte in estate in maniera fair and free e hanno portato alla proclamazione di un nuovo presidente: Ibrahim Boubacar Keïta (noto come IBK).

IBK ha così potuto giurare il 4 settembre 2013 come capo di un Mali territorialmente unito. Si tratta di un politico di lungo corso, già primo ministro dal 1994 al 2000, ma sconfitto due volte in passato nelle elezioni presidenziali (2002 e 2007). È un grande amico della Francia (con studi blasonati a Parigi: Sorbona e CNRS – Centre National de la Recherche Scientifique) e rappresenta la sintesi perfetta del politico navigato e molto ben visto sia nella regione (ha forti legami con le élite di Costa d’Avorio e Burkina Faso e in generale con quelle dell’intero Sahel) sia oltre Atlantico e in Europa.

Assai significativa è inoltre la sua neutralità verso il capitano Sanogo, il militare golpista da molti ritenuto ancora l’uomo forte di Bamako. Questo, insieme ai legami privilegiati di IBK con Parigi, ne fa certamente il candidato ideale per gestire la fase post-conflitto o, come forse sarebbe meglio dire, di stallo del conflitto. In ultimo, fedele alla sua forma mentis pragmatica, Keïta ha nominato come primo ministro un tecnocrate (evitando logiche familistiche o di bandiera politica) come ’Oumar Tatam Ly, già membro della Central Bank of West African States.

La sua prima mossa da presidente è stata la benedizione dell’accordo di cessate il fuoco firmato a giugno dai tuareg: il prodromo necessario alla riconciliazione nazionale. L’MNLA, il movimento che rappresenta le istanze dell’irredentismo tuareg, sino alla scorsa primavera aveva optato per la linea isolazionista: né con Bamako né con gli islamisti. Solo dopo i successi di Serval ha cambiato strategia, firmando il 18 giugno la tregua proposta dal governo centrale e promettendo un aiuto nella caccia alle milizie islamiste rifugiate verso il confine algerino.

Infatti, i nodi per il controllo del nord riguardavano e riguardano ancora oggi le città di Gao e Kidal, la culla del separatismo tuareg, dove ai primi di novembre due reporter francesi sono stati trucidati. Una vicenda emblematica dello stato caotico delle cose, giacché il resoconto dei fatti non chiarisce bene se la responsabilità di questo atto criminale sia a carico di una cellula impazzita dell’MNLA o di tuareg ancora alleati agli islamisti o di sola matrice fondamentalista.

Nonostante si dica che Kidal è ormai territorio bonificato, sotto controllo delle truppe francesi o panafricane, episodi simili (rapimento e successiva esecuzione) che si verificano in pieno giorno e in centro città lasciano qualche dubbio sulla stabilizzazione della regione e sulla qualità dei negoziati conclusi coi tuareg.

Su questo sfondo Parigi, contrariamente agli annunci degli esordi, non ha in progetto il ritiro del proprio contingente, nonostante la riconquista del nord sia stata portata a termine con successo. Il presidente Hollande è consapevole che per mantenere il controllo della situazione – sotto il profilo militare e psicologico, nonché per conservare il prestigio francese nel mondo – occorre restare in prima linea. In questo senso probabilmente gioca un ruolo anche lo smacco siriano, quando con una fuga in avanti diplomatica pochi mesi fa la Francia ha tentato, senza riuscirci, di forzare un intervento militare “atlantico” contro il regime di Assad.

Proprio Hollande, tra l’altro, è apparso in televisione a inizio dicembre per annunciare con un messaggio ai francesi l’invio di truppe nella Repubblica Centrafricana, dove i rischi di destabilizzazione interna sono certamente reali, ma chiaramente secondari rispetto alle esigenze strategiche complessive di Parigi e dell’Occidente.

L’ONU intende promuovere una sorta di piano Marshall per il Sahel, per scongiurare nuove rivolte dettate, oltre che dall’indipendentismo tuareg mai sopito e dal neo-fanatismo religioso, anche dalla facilità di reclutamento che i fondamentalisti hanno dimostrato nei vastissimi strati emarginati della società africana.

Destino emblematico è quello toccato a Timbuktu, la città simbolo del Mali. Qui gli islamisti, durante i mesi d’occupazione, si sono accaniti contro il sincretistico patrimonio culturale. La missione UNESCO del giugno scorso ha concluso che i danni sono ben maggiori di quelli prospettati. Il rapporto di Lazare Eloundou Assomo è impietoso: 13 mausolei considerati patrimonio dell’umanità sono stati completamenti distrutti.

Anche la Moschea di Djingareyber, la storica madrasa dell’università di Timbuktu, ha subito gravissimi danni mentre totale è la distruzione del monumento a El Farouk. I miliziani di Ansar Dine in fuga hanno inoltre incendiato i manoscritti che facevano parte della storica biblioteca della città: oltre 4.000 testi antichi sono andati distrutti e altri 300.000 gravemente danneggiati.

Sul versante della sicurezza, il Mali ricorda da vicino l’attuale Somalia, dove la minaccia degli Al-Shabaab (allontanati dal potere solo grazie un’operazione militare coordinata da potenze straniere, tra cui il Kenya) può essere fronteggiata unicamente da truppe estere: i deboli e mal organizzati eserciti di Mogadiscio e Bamako non potrebbero reggere da soli ad una nuova controffensiva islamista.

Il futuro del paese dipende quindi da tre fattori: se la tregua coi tuareg reggerà; se il nuovo presidente Keïta riuscirà a rendersi credibile in patria come appare al momento a livello internazionale; se infine le truppe di Serval continueranno a esercitare una pressione sufficiente a scoraggiare nuove offensive di gruppi jihadisti.