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Il governo di unità nazionale in Israele: dinamiche interne e questione iraniana

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Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha stupito tutti quando l’8 maggio ha annunciato la volontà di costituire un governo di unità nazionale assieme al partito Kadima, in un discorso congiunto con il suo leader Shaul Mofaz. Pochi giorni prima si era pronunciato sulla necessità di indire nuove elezioni alla luce della scarsa coesione dell’attuale coalizione di governo, al potere dal febbraio 2009. Per le elezioni era stata già fissata una data – il 4 settembre prossimo – ed erano partiti i sondaggi degli analisti sulle probabilità di successo dei maggiori partiti. È stato però (si deve presumere) raggiunto un accordo con Kadima sulla spartizione dei portafogli ministeriali, e i piani sono cambiati.

Mofaz è visto all’interno come politicamente debole, e anche per questo la scelta di Netanyahu ha preso molti alla sprovvista. Il leader di Kadima ha dichiarato di aver agito in nome della responsabilità nazionale per introdurre tre riforme urgenti che l’attuale coalizione non ha saputo realizzare: si tratta di due “leggi fondamentali” (l’equivalente delle leggi costituzionali, nel sistema israeliano) e il rilancio del processo di pace con l’ANP, auspicabilmente secondo i criteri indicati dal cosiddetto “Piano Mofaz”.

La prima è la legge sulla coscrizione militare obbligatoria (Legge Tal), che dovrebbe essere riformulata in modo da introdurre l’obbligo di svolgere almeno il servizio civile anche per gli ebrei ultraortodossi e per gli arabo-israeliani. La seconda norma fondamentale andrebbe a rafforzare l’esecutivo e la formazione di coalizioni solide in grado di portare a termine il proprio mandato.

Quanto al processo di pace, il “Piano Mofaz” delinea uno schema allo stesso tempo più flessibile ma anche più completo di quello previsto dalla road map: una Palestina inizialmente a “confini variabili”, grazie al ritiro unilaterale di Israele dall’area C degli Accordi di Oslo (ovvero quella non limitrofa a centri urbani palestinesi e dove non si trovano insediamenti israeliani); poi la possibilità di una restituzione di un ulteriore 10-20% di territorio – in cambio di una garanzia forte da parte di Abu Mazen sull’assunzione della piena responsabilità di governo anche nella Striscia di Gaza con un monitoraggio internazionale permanente. Il nuovo piano prevede comunque un processo lungo un arco di tempo ancora da definire e da realizzare a tappe in base alla cooperazione tra le due parti, ma partendo da misure unilaterali israeliane. Ai coloni sarebbero prospettati incentivi governativi per abbandonare volontariamente gli insediamenti ancora prima che lo Stato palestinese vedesse definitivamente la luce: senza la necessità, dunque, di evacuazioni.

In quest’ottica, il governo di unità nazionale offrirebbe a Netanyahu la concreta prospettiva di riprendere la strada del processo di pace, che l’attuale coalizione non sembra davvero in grado di perseguire: sarebbe così decisamente emarginata la corrente più dura del Likud – quella che aveva sostenuto Moshe Feiglin alle primarie – e neutralizzata l’ala più ostile di Kadima – rappresentata dall’ex leader Tzipi Livni. È l’ipotesi di un “grande centro” che torna alla ribalta: si tratta di un’opzione di governo appoggiata da molti israeliani e foriera di vasti consensi trasversali nella popolazione. Non a caso, l’ex showman Yair Lapid sta puntando nella stessa direzione con la formazione del suo nuovo partito Yesh Atid, ovvero “C’è un futuro”: cogliendo probabilmente meglio di altri l’umore dell’elettore medio israeliano, Lapid si rivolge a tutti “coloro che pagano le tasse, compiono il servizio militare, credono in un governo forte e non vogliono rimanere ostaggi dell’estremismo dell’una o l’altra parte”.

Molti intellettuali e la sinistra si sono, come era prevedibile, scagliati contro il governo di unità nazionale, definendolo una mossa “cinica e arrivista” (Labour) e un “patto così sporco che il pubblico ha perso fede nell’intero sistema politico” (Meretz). La realtà, però, è che non esiste più una vera opposizione alla Knesset, visto che il nuovo governo assomma 94 seggi, la quota maggiore mai raggiunta da una coalizione: la percentuale di blocco, che avrebbe permesso agli avversari di votare la sfiducia, non esiste più. Il Partito Laburista di Shelly Yachimovich, con i suoi soli 8 deputati – a cui potrebbero aggiungersi eventualmente 7 deputati dissidenti di Kadima – rappresenta insieme ai 3 deputati di Meretz (con l’esclusione dei partiti arabi) l’unica forza critica ma del tutto incapace di fare ostruzionismo. La Yachimovich, inoltre, che la scorsa estate si era posta alla guida delle rivolte sociali che avevano scosso il paese, non si è mai espressa in materia di politica estera, lasciando intendere che fosse fuori dalle sue competenze e da quelle del Labour: un messaggio pericoloso in un paese dove la classe politica è composta in larga misura da generali in pensione e dove la credibilità politica si misura anche sulla base dell’esperienza militare maturata sul campo.

Il governo di unità nazionale sembra soprattutto realizzare il progetto di Netanyahu di porsi alla guida di un esecutivo forte, in un momento in cui la sua popolarità personale è all’apice. Una coalizione così ampia dovrebbe facilitare il perseguimento di due obiettivi fondamentali: un piano di pace unilaterale o al più sottoscritto a posteriori dall’ANP; acquisire la legittimità interna necessaria a compiere un attacco preventivo contro l’Iran prima dell’insediamento del nuovo presidente americano. I piani militari per un’operazione iraniana sono già pronti, ma è mancato finora un consenso ampio e trasversale che  potrebbe invece essere disponibile nei prossimi mesi.

Quanto all’opinione pubblica, un recente sondaggio (elaborato dalla Dafah in collaborazione con la Brookings Institution) indica che due terzi degli israeliani sosterrebbero il governo in caso di un attacco preventivo con l‘assenso di Washington. La questione è ovviamente complessa, visto che tale “via libera” ad oggi non è arrivato, ma intanto il 50% degli israeliani è convinto che gli USA entrerebbero in guerra contro l’Iran anche qualora essa fosse stata scatenata da un attacco preventivo israeliano.

Se è vero che Mofaz (nato proprio in Iran), è stato Capo di Stato maggiore e condivide dunque l’approccio del mainstream israeliano alle questioni di sicurezza, è altrettanto vero che egli sulla questione iraniana è considerato una “colomba”. Inoltre, nelle dichiarazioni ufficiali per l’annuncio del nuovo governo, è in effetti mancata qualsiasi menzione dell’Iran da parte dei due leader. Lo stesso Mofaz – in un’intervista di appena un mese fa – si era dichiarato contrario all’azione militare perché a suo avviso non dettata da una necessità impellente, ma il leader di Kadima in passato si è dimostrato capace di riadattare rapidamente le proprie opinioni al contesto politico.

Alcuni osservatori sostengono infatti che proprio la creazione di una Grande Coalizione rappresenti un passo di avvicinamento al possibile attacco all’Iran, e che una certa riservatezza sull’eventuale opzione militare sia del tutto naturale. Il dossier iraniano è destinato a rimanere scottante anche sul piano interno: il Ministro della Difesa Barak, criticato da più parti per le sue posizioni interventiste, ha dichiarato che Israele dovrebbe varare una legge che vietasse agli ex funzionari appena ritiratisi di esprimere pubblicamente le loro opinioni politiche. Il riferimento era chiaramente a Meir Dagan, ex capo del Mossad, e Yuval Diskin, ex Shin Bet, che qualche giorno prima avevano criticato la politica della coppia Nethanyau-Barak sull’Iran, definendola “messianica”.

Se il quadro interno resta insomma difficile da interpretare in Occidente, il significato della svolta politica in Israele sembra chiaro a molti dei giornali arabi, che nei giorni scorsi hanno titolato “Nethanyau sta formando un governo di guerra” (al-Quds al-araby), “un governo che sfida la pace” (al-Bayan, EAU) “Israele si prepara alla guerra” (al-Madina, Arabia Saudita). Perfino Hamas si è affrettato a dichiarare che la sua organizzazione non prenderà le parti dell’Iran nel conflitto ma rimarrà neutrale, come se la guerra dovesse scoppiare a giorni. In effetti, per Israele l’interregno politico in cui si trovano gli Stati Uniti nel periodo pre-elettorale può costituire un’opportunità unica di agire senza eccessivi vincoli; e ciò potrebbe realizzarsi preparando un casus belli fortuito, cioè una sorta di incidente:  un’escalation del braccio di ferro con il regime degli ayatollah potrebbe trascinare l’Europa e gli Stati Uniti nell’ennesima guerra non voluta in Medio Oriente.