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Il Giappone accoglie l’ambasciatore Caroline Kennedy, ma è scettico su John Kerry

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Le ultime settimane hanno fatto segnare due tendenze opposte per quanto riguarda l’alleanza tra Stati Uniti e Giappone. Da un lato, la possibile nomina di Caroline Kennedy al ruolo di ambasciatore a Tokyo rappresenta un segnale di rinnovata centralità del Giappone nello scacchiere americano. Dall’altro, il recente viaggio del segretario di Stato John Kerry ha fatto emergere un’ansia crescente di Tokyo nei confronti della capacità e della volontà americane di tutelare la sicurezza e gli interessi giapponesi in questa complessa fase, caratterizzata dalla “brinkmanship nucleare” nordcoreana e dall’attivismo cinese.

La nomina di Caroline, figlia di John F. Kennedy e unica rappresentante politicamente attiva della dinastia del Massachusetts, è stata accolta con favore dai commentatori giapponesi, pur avendo ricevuto diverse critiche negli Stati Uniti. Vari analisti americani hanno sottolineato la mancanza di esperienza politica e diplomatica del futuro ambasciatore, e in particolare la sua scarsa conoscenza dell’Asia orientale e del Giappone. I critici dell’amministrazione Obama hanno messo in evidenza, inoltre, la tendenza del presidente a premiare i principali sostenitori della sua campagna elettorale con posizioni di ambasciatore in sedi diplomatiche prestigiose.

I giapponesi, al contrario, vedono con molto più favore questa nomina, a causa del suo significato politico e simbolico. In primo luogo il fatto che la scelta sia caduta su una personalità di spicco come quella della principale rappresentante della famiglia Kennedy è considerato un segnale della rinnovata centralità politica del rapporto bilaterale tra Washington e Tokyo. Il predecessore di Caroline Kennedy è John V. Roos, ex amministratore delegato di un’agenzia di consulenza legale della Silicon Valley e attivissimo finanziatore della campagna presidenziale di Obama nel 2008, anch’egli giunto all’incarico essendo del tutto privo di esperienza politica e diplomatica. Anche se ex post l’esperienza di Roos è considerata come positiva, nel 2009 la sua nomina era stata interpretata come una sorta di “declassamento” dai giapponesi.

In precedenza, la stessa posizione era stata ricoperta da personalità più autorevoli, quali Mike Mansfield, Michael Armacost e l’ex vice-presidente Walter Mondale.  

Ora, l’elemento più rilevante nella valutazione di Tokyo è il richiamo all’epoca kennediana: l’amministrazione Kennedy è considerata, infatti, quella che ha compiuto i maggiori sforzi per comprendere gli interessi e la visione del mondo giapponese, abbandonando quella che l’ambasciatore dell’epoca, Edwin O. Reischauer, condannò come “mentalità da occupazione” per dare vita ad una partnership politica e strategica funzionale agli interessi di entrambe le nazioni. L’arrivo di una Kennedy a Tokyo incarnerebbe quindi sia la volontà dell’amministrazione Obama di dare vita ad una partnership più equa sia una riaffermazione dell’importanza dell’alleanza come pietra angolare dell’impegno americano nella regione.

Se la nomina del nuovo ambasciatore ha segnato un momento di rinnovata intesa tra Tokyo e Washington, il recente viaggio del segretario di Stato John Kerry sembra aver invece raffreddato l’entusiasmo dei giapponesi nei confronti della politica estera della seconda amministrazione Obama.

Sebbene Kerry abbia ribadito più volte l’impegno americano a garantire la sicurezza dell’alleato giapponese, il governo Abe appare scettico sulle ultime mosse dell’amministrazione Obama, in particolare in merito alla gestione della recente crisi nord-coreana. Kerry ha in effetti il difficile compito di trovare il giusto mix di deterrenza e diplomazia che rassicuri alleati quali Giappone e Corea del Sud e allo stesso tempo favorisca il ritorno del regime nordcoreano al tavolo delle trattative.

Dal punto di vista giapponese le questioni immediate più problematiche sono due: Kerry ha offerto al governo cinese di rallentare la realizzazione del sistema anti-missile, al quale partecipa anche il Giappone, in cambio di forti pressioni cinesi nei confronti del regime nord coreano. Inoltre, il segretario di Stato si è detto favorevole a riaprire i negoziati diretti con Pyongyang.

Queste proposte sono potenzialmente lesive degli interessi giapponesi. In primo luogo l’amministrazione americana dichiara la propria disponibilità a condizionare la realizzazione di una parte importante dei propri piani militari al comportamento cinese. Ciò evoca il principale “incubo strategico” del Giappone del dopoguerra, ovvero la possibilità che la sicurezza e il potere negoziale dell’alleanza nippo-americana possano essere sacrificati sull’altare di un patto tra superpotenze stretto tra Washington e Pechino.

Il secondo luogo, il governo conservatore guidato da Shinzo Abe è fortemente scettico nei confronti delle trattative con il regime guidato da Kim Jong Un. Abe considera la mano tesa di Washington come l’ennesimo tentativo destinato al fallimento, e ha sempre espresso una retorica fortemente anti-nordcoreana, attribuendo grande rilevanza alla vicenda dei cittadini giapponesi rapiti dal regime dei Kim negli anni Ottanta.

In termini più generali, la visita di Kerry ha messo in luce come l’amministrazione Obama non sia favorevole agli aspetti più revisionisti dell’agenda di Abe in politica estera. Il segretario di Stato ha invitato Cina, Corea del Sud e Giappone ad evitare provocazioni ed escalation della tensione in materia di dispute territoriali. Tokyo considera questo invito alla distensione da parte di Kerry come un passo indietro rispetto alla dichiarazione di Hillary Clinton del 2012, nella quale si era ribadito come le isole Senkaku rientrassero nel territorio sovrano giapponese, e quindi fossero incluse nell’area che gli Stati Uniti sono impegnati a proteggere in base all’articolo 5 del trattato di Mutua Sicurezza.

Kerry ha anche invitato il governo Abe ad evitare nuove mosse che potrebbero riaccendere la “questione della memoria”. L’agenda di Abe, infatti, è fortemente revisionista sulle pesanti eredità della storia: i conservatori hanno annunciato la loro intenzione di proporre cambiamenti all’articolo nove, la clausola pacifista della costituzione, e di rivedere la posizione del governo sul riconoscimento ufficiale dei crimini di guerra commessi dall’esercito imperiale durante la seconda guerra mondiale. Su questo punto la priorità di Abe, cioè quella di rafforzare il proprio consenso a livello domestico attraverso un’agenda nazionalista e revisionista, contrasta con l’obiettivo americano di favorire una maggiore cooperazione tra Corea del Sud e Giappone in materia diplomatica e militare.

Questi contrasti, che per ora rimangono sotto traccia, evidenziano una possibile contraddizione diplomatica e strategica nei rapporti tra Stati Uniti e Giappone in seguito al Pivot to Asia americano. L’amministrazione Obama punta a trasformare il Giappone in un security provider regionale, sempre più attivo dal punto di vista militare e più integrato con gli altri partner asiatici degli Stati Uniti. Da parte sua, il governo Abe, che punta effettivamente ad assumere questo ruolo, promuove un’agenda revisionista che non contribiusce alla stabilizzazione della regione. Nel medio periodo, proprio un possibile miglioramento sul fronte nord coreano e una collaborazione in materia di non proliferazione tra Pechino e Washington potrebbe portare a notevoli contrasti tra Washington e Tokyo.