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Il futuro della Russia e la crisi in Crimea

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Dalle strade di Kiev, il destino dell’Ucraina sembra essersi ora spostato nella penisola di Crimea – territorio a maggioranza russa che solo nel 1954 fu ceduto alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, quando però l’URSS non applicava certo il principio delle autonomie locali. Dopo le esercitazioni militari presso il confine, la Russia sembra anche coinvolta in operazioni paramilitari in alcune aree del paese vicino (sebbene le informazioni non siano al momento precise). E lo schema seguito da Putin ricorda molto quello applicato alle enclavi georgiane di Abkhazia e Ossezia del Sud (in occasione del conflitto militare con la Georgia nel 2008): Mosca rivendica un diritto di ingerenza nei territori abitati da minoranze che si considerano “russe”, ma così facendo incide direttamente sugli equilibri interni di paesi sovrani.

Due sono le ragioni che spingono Vladimir Putin a prendere rischi significativi nella gestione della crisi ucraina: la prima è il peso della storia, per cui Kiev è parte integrante dell’identità russa in termini culturali e religiosi; la seconda ragione è il timore di un contagio che potrebbe riaccendere il dissenso interno alla stessa Federazione Russa (finora emerso solo a tratti). In altre parole, in gioco non è soltanto il futuro di un vasto paese vicino che ha da sempre strettissimi legami con Mosca, ma probabilmente anche la tenuta del regime di Putin, almeno nel medio termine.

La Crimea ha una storia travagliata ed era il più prevedibile dei punti caldi; eppure, il porto di Sebastopoli, per quanto importante strategicamente per la flotta russa, non è certo insostituibile visto l’ampio accesso al Mar Nero di cui la Russia dispone. Il problema più grave che la situazione pone a Mosca rimane invece di tipo politico: è come se Putin stesse osservando appena fuori dai confini quello che potrebbe un giorno accadere in casa sua. Basti pensare che in Crimea non vivono soltanto popolazioni di etnia russa, oltre a quelle ucraine, ma anche una minoranza di Tatari (meno di un quarto del totale), la cui religione è l’Islam. Ciò crea un legame diretto tra gli eventi di questi giorni e l’assetto dello Stato russo, che in realtà è minacciato soprattutto dal suo scarso dinamismo economico, dallo scontento sociale sottotraccia, e dalla frammentazione etnica, linguistica e religiosa delle sue molte “periferie” – con una specifica questione musulmana. L’Ucraina in crisi economica ha tentato di rivolgersi alla Russia quando le condizioni poste dall’Occidente per concedere aiuti sembravano inaccettabili a Yanukovich; ma a chi si potrebbe mai rivolgere Mosca, a sua volta, qualora dovesse arrivare il momento di un calo sensibile dei prezzi mondiali di petrolio e gas? In sostanza, il pugno di ferro di Putin verso i vicini nasconde la fragilità del suo “sistema paese”.

In ogni caso, le dinamiche interne ucraine saranno decisive, poiché neppure la forza militare russa sarà sufficiente a tenere sotto controllo l’intero paese – come non lo è stata la sua pressione diplomatica per tenere in carica il presidente Yanukovich (in attesa di chiarimenti sul suo destino). Per evitare lo scenario terribile di una guerra di secessione, da parte di Mosca si dovranno accettare dei compromessi sulla tutela delle minoranze etnico-linguistiche, e ripristinare la piena sovranità dello Stato ucraino che di fatto è stata probabilmente violata. Ma, soprattutto, ci vorrà un governo a Kiev disposto a includere e rassicurare quelle minoranze, invece di escluderle e punirle.

Partendo dunque dalla priorità dei fattori interni al mosaico ucraino, andranno comunque prese decisioni delicate da parte di Stati Uniti ed Europa. Washington sta seguendo, come ha sempre fatto sotto la presidenza Obama di fronte a rivolte popolari e vere guerre civili, la linea della massima prudenza. Non è chiaro quale prezzo concreto Obama sia disposto a far pagare a Putin per un’eventuale escalation in Ucraina; ciò anche in considerazione dell’importanza di altri urgenti dossier sui quali Mosca esercita un peso, come la Siria e l’Iran. Al momento – e giudicando dai precedenti – non si vedono le condizioni per un indurimento sensibile della posizione americana.

Se guardiamo infine all’Unione Europea, le opzioni sul tavolo sono poche. Né Bruxelles né le singole capitali del Continente hanno la capacità pratica di fornire appoggio economico nell’entità richiesta con una prontezza tale da influire davvero sugli eventi in corso. Questo è da sempre il dilemma della posizione europea sulle vicende ucraine: c’è una chiara percezione dell’importanza del paese, ma anche dei limiti della propria azione, sia per le dimensioni dell’Ucraina sia per le complesse relazioni con la Russia. Nelle prossime ore, oltre a monitorare con giusta preoccupazione l’evolvere degli eventi, si vaglieranno certamente varie forme di pressioni diplomatiche, tanto su Kiev che su Mosca; tuttavia, la Crimea non sembra davvero sotto il controllo delle cancellerie europee né di Washington.

Dunque, i pericoli maggiori dell’incerta vicenda ucraina non sono, per ora, quelli di una specie di nuova guerra fredda o di un conflitto generalizzato. Sono quelli che vengono dalla frammentazione del paese e dal contagio che un simile evento avrebbe proprio sulla Russia.

 

Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Il Mattino il 1 marzo 2014.