international analysis and commentary

Il fattore religioso nel quadro politico israeliano

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Il rapporto tra politica e religione in Israele è estremamente peculiare, e si basa sugli accordi stipulati alla vigilia della creazione dello Stato tra Ben Gurion e i vertici religiosi ebraici. In essi, il rabbinato aveva ottenuto in primo luogo di fissare una serie di paletti relativi alla vita quotidiana della popolazione. Fra di essi, il divieto di contrarre un matrimonio con rito non religioso nel paese (mentre vengono oggi riconosciuti quelli contratti all’estero), e le norme relative alla chiusura dei locali pubblici durante lo Shabbat. Lo steso vale per la Legge del ritorno, che disciplina i permessi di immigrazione in Israele per gli ebrei della diaspora, basandosi largamente su criteri di carattere religioso. Altre norme riguardano invece la preservazione dello stile di vita degli ebrei ultraortodossi (i cosiddetti haredim) che abitano, spesso, in quartieri separati rispetto al resto della popolazione. Ancora oggi, nelle aree da essi abitate e nei loro pressi, sono in vigore una serie di limitazioni, per esempio con trasporti pubblici segregati per genere; mentre gli studenti di religione delle yeshiva (una minoranza alla fondazione dello Stato, che è però oggi salita a circa il 10% dei giovani) sono esentati dal servizio militare.

Queste regolamentazioni sono state spesso, negli ultimi decenni, oggetto di discussione, sia da parte dei religiosi, sia da parte dei laici. In certa misura, alcune di esse sono state superate con la secolarizzazione dello stile di vita di alcuni strati della popolazione (anche fra coloro che si dichiarano ortodossi) e l’immigrazione di popolazioni fortemente laicizzate dai paesi post-comunisti: per esempio con una maggiore tolleranza sull’apertura di esercizi commerciali durante lo Shabbat. Oppure sono state innovate da sentenze giudiziarie: celebre quella che permette il riconoscimento dei matrimoni omosessuali contratti all’estero. Tuttavia, un loro adattamento sostanziale (secondo gli auspici dello stesso Ben Gurion, che riteneva che il tempo avrebbe realizzato un naturale equilibrio tra istanze laiche e religiose) è stata resa difficile dall’attività di interdizione dei partiti religiosi.

Questi ultimi, da sempre presenti nella Knesset, sono stati spesso influenti a causa di una legge elettorale proporzionale con bassa soglia di sbarramento, che ha generalmente prodotto parlamenti frammentati, in cui i voti dei religiosi sono stati determinanti per la formazione e la tenuta degli esecutivi. I partiti religiosi israeliani sono partiti religiosi in senso “stretto”, avendo spesso come leader degli esponenti del clero; e sono, anche per questo motivo, un universo estremamente variegato, soggetto a scissioni e controversie interne. La principale suddivisione era, tradizionalmente, quella fra due gruppi: gli haredim, convinti che la creazione dello Stato sia stata un’impresa empia, in quanto violerebbe i “tre giuramenti” che proibiscono il ritorno nella terra promessa prima dell’avvento del messia; e i sionisti religiosi (o nazionalisti religiosi), che ritengono invece che la creazione dello Stato rappresenti essa stessa il primo passo, del tutto positivo, del processo di redenzione messianica (e per questo hanno sempre sostenuto in tutti i modi gli insediamenti nei territori e la loro incorporazione nello Stato di Israele). Storicamente, i primi trovavano rappresentazione nel partito Agudat Israel, che ha sempre lavorato per preservare lo stile di vita e la separazione degli haredim, rifiutando però un ruolo troppo diretto in politica, in particolare negli esecutivi; i secondi nel Partito Nazionale Religioso (o Mafdal) che invece ha sempre partecipato attivamente alla vita politica dello Stato.

Con il tempo questo panorama si è modificato, a causa degli eventi storici che hanno portato il Mafdal ad accentuare il proprio nazionalismo dopo la Guerra dei Sei Giorni, concentrandosi sul mantenimento e l’incorporazione dei territori quasi come dogma religioso, e poi frazionandosi in una serie di gruppi più o meno estremisti. Nello stesso tempo gli haredim hanno accettato un maggiore coinvolgimento politico, e in molti casi hanno superato la propria neutralità verso lo Stato di Israele, caratterizzandosi a loro volta in senso più nazionalista. Ma, soprattutto, sono intervenute nuove fratture: in primo luogo quella etnica, che ha causato scissioni in entrambi gli schieramenti, fra le componenti ashkenazite (ovvero gli ebrei originari dell’Europa centro-orientale) e quelle sefardite (gli ebrei della diaspora spagnola e, per estensione, quelli stanziati tradizionalmente in Medio Oriente e Africa del nord).

Tra le nuove formazioni così create, un particolare successo ha avuto Shas, partito ultra-ortodosso sefardita creato negli anni Ottanta dall’ex rabbino capo di Israele Ovadia Yosef. Il partito occupa oggi undici seggi parlamentari (sui 120 totali della Knesset), dopo avere raggiunto un picco di diciassette parlamentari nelle elezioni del 1999. Questo successo non si spiega solo con l’appeal religioso o con quello etnico, ma anche con una massiccia attività di base, che ha realizzato una vasta rete di istituzioni educative e di welfare che somiglia, sotto alcuni punti di vista, a quelle dei gruppi islamisti mediorientali; così come con un’agenda sempre più nazionalista.

A confrontarsi con Shas per il voto religioso è il partito HaBayit HaYehudi, o Jewish Home (che oggi raccoglie buona parte delle fazioni della destra sionista religiosa, fino a tempi molto recenti estremamente frammentata): il suo nuovo leader, il quarantenne Naftali Bennett, ha aggiunto alla tradizionale enfasi sugli insediamenti e sull’annessione dei territori, un programma economico orientato alle pari opportunità per le fasce più deboli e alla lotta contro i grandi capitali. Il partito si è così posto, in parte, in concorrenza con Shas per il voto degli stessi strati della popolazione. La frammentazione e pluralizzazione del mondo etno-religioso israeliano sembra così essersi risolta nel passaggio da partiti “di campo”, ognuno rappresentante di una determinata comunità, in partiti religiosi a 360 gradi, che condividono una parte significativa di punti programmatici e competono per i voti dello stesso elettorato, tradizionalista e nazionalista. E, per questo motivo, possono finire per intercettare anche i voti di molti elettori delusi del Likud e delle altre formazioni della destra.