international analysis and commentary

Il discorso troppo “europeo” di Obama

303

Se il 2 novembre 2010 si fosse votato in Italia, o in Europa, non ci sarebbe stato dubbio sul risultato: un plebiscito per i democratici di Barack Obama. Poiché, invece, si è votato negli Stati Uniti, il partito dell’Asinello ha visto crollare i suoi consensi, e dentro quello dell’Elefantino si sono rafforzate le correnti più conservatrici dei Tea Party. Allo stesso modo, è facile entusiasmarsi se si legge il discorso sullo Stato dell’Unione del 25 gennaio 2011 con occhi europei. Il presidente americano ha scandito parole d’ordine a cui noi siamo abituati: termini come “innovazione”, “lavoro”, “governo” hanno segnato trama e ordito dell’intervento. Il New York Times ha sottolineato che “governo” compare 18 volte, mentre erano appena 7 nel discorso del 2009. Quasi assenti, invece, “crescita” e “mercato”. Retoricamente, insomma, Obama è un grande leader europeo. Dal punto di vista del messaggio e dei contenuti, però, fatica a convincere gli americani. Come mai?

In un certo senso, stiamo assistendo all’esaurirsi di un sogno, al risveglio americano dopo il sonno della crisi. La promessa del change obamiano era, in qualche maniera, la promessa di portare gli Stati Uniti nell’Unione Europea. Le principali riforme su cui il presidente imperniò la vittoriosa campagna elettorale del 2009, e attorno a cui ha scommesso il suo capitale politico nel primo biennio di governo, sono più europee che americane: sia quando si sono materializzate (come nel caso dell’Obamacare e della riforma finanziaria), sia quando ciò non è stato possibile.

Obama ha, poi, subito una duplice reazione di rigetto. Da un lato, le proposte attorno cui ha orientato il dibattito si sono rivelate elementi di divisione sia interna sia esterna: hanno alienato al presidente le simpatie degli elettori di centro e di destra, al punto da attirare alle urne persone che normalmente si astengono; e sono state giudicate alla stregua di un tradimento da parte delle constituency più ideologizzate. Dall’altro, il messaggio obamiano si è rivelato vincente nel momento dell’incertezza e della paura, ma quando l’America si è rimboccata le maniche è stato vissuto più come una camicia di forza che come un’opportunità di rinnovamento, più come un modo di mettere le briglie agli spiriti animali che un modo di costruire una rete di salvataggio.

Questo fraintendimento ha sancito il progressivo allontanamento tra la retorica di Obama e la sensibilità della gente. Contemporaneamente, però, ha suggellato la sintonia tra l’inquilino della Casa Bianca e l’intellighenzia europea che, pur delusa e frustrata per i fallimenti (come sul clima), riconosce in Obama l’interlocutore più vicino e più simile a sé. Obama piace agli europei perché parla la loro lingua, si esprime come loro, ha i loro stessi valori di riferimento, rende più umano quello strano paese al di là dell’Atlantico. Ma, per la stessa ragione, fatica a farsi comprendere dagli americani.

Lo Stato dell’Unione 2011 non fa eccezione e, se possibile, allarga ancora questa faglia, che si era invece ristretta con l’accorato discorso di Obama a Tucson dopo la sparatoria dell’8 gennaio. In quell’occasione, il presidente era riuscito a unire, non dividere, gli americani; era riuscito ad accantonare ogni tentazione populista e di strumentalizzazione della tragedia in chiave anti-repubblicana, anti-Tea Party, anti-secondo emendamento. Quella magia, però, non è durata. Tant’è che, se si legge il discorso del 25 gennaio con lenti americane, si trova un testo tutto sommato sciatto, debole, con un vago senso di dejà vu – a partire dal miraggio dell’indipendenza energetica, una costante fin dai tempi di Richard Nixon. Al punto che il giornalista della ABC, John Donovan, ha chiaramente evidenziato come la più grande sfida per l’annuale appuntamento di gennaio sia da sempre l’originalità. E l’economista Michael Giberson si è spinto oltre: “come diceva Thomas Jefferson, il discorso sullo Stato dell’Unione contribuisce alla venerazione dei leader politici. Invece dovremmo coltivare un’attitudine di cautela verso i nostri politici di maggior successo”. Come dire: parole vuote e un rito stanco.