Il presidente degli Stati Uniti, recita la costituzione, “informerà di tanto in tanto (from time to time) i membri del Congresso sullo Stato dell’Unione e raccomanderà alla loro attenzione quelle misure che egli riterrà necessarie e opportune”. Nell’ultimo secolo, il senso di questo passaggio della costituzione è stato in larga misura stravolto, e con rare eccezioni la relazione presidenziale sullo Stato dell’Unione è diventata appuntamento pubblico di inizio anno. Un appuntamento, questo, dove i presidenti illustrano le proprie visioni e dove per qualche ora le fazioni contrapposte seppelliscono le asce di guerra e celebrano gli Stati Uniti d’America: la loro unità nella diversità, la loro eccezionalità, i loro successi, e, infine, le loro luminose prospettive.
È, quella rappresentata dal presidente nel discorso sullo Stato dell’Unione, un’America che parla primariamente a se stessa. A maggior ragione in un momento di crisi e difficoltà come quello corrente. Ed è, dal pulpito presidenziale, una parte d’America – nell’occasione quella dei democratici – che cerca di trarre il massimo vantaggio possibile. È quanto ha fatto Obama ieri. Parlando poco, come è ovvio che sia, di questioni internazionali; e offrendo un messaggio attento a intercettare pulsioni profonde dell’opinione pubblica, in quella che costituisce anche una sfida – tra democratici e repubblicani – su chi meglio rappresenta (e comprende) gli Stati Uniti: il loro presente, ma anche il loro passato e le lezioni che esso offre. Appellarsi ripetutamente all’unità del paese, come ha fatto ieri Obama, e denunciare gli effetti perniciosi che divisioni e fratture esercitano sulla democrazia americana significa rimandare a un topos antico quanto gli Stati Uniti stessi. Come lo è porre una forte enfasi sul futuro: le possibilità quasi illimitate che il futuro offre a quest’America, così come le offrì alle generazioni precedenti. A patto, però, di non temerlo e, soprattutto, di attrezzarsi per poterlo affrontare.
La retorica è stata quindi alta, patriottica e vaga, come era inevitabile dato il profilo di questo presidente – dotto e carismatico – oltre all’occasione. Il discorso di Obama non ha invece costituito l’ulteriore passaggio di una svolta centrista che sarebbe in atto negli ultimi mesi, in particolare dopo la batosta elettorale delle elezioni di medio-termine. Perché non era questa l’occasione per offrire quei dettagli programmatici che, soli, permettono di giudicare i contenuti di una proposta politica; perché su alcuni temi – nuovi investimenti pubblici e tagli alla difesa – Obama ha assunto posizioni affatto apprezzate dalla controparte repubblicana; perché, infine, Obama in fondo è sempre stato “moderato”, anche nella sua azione di governo (non avrebbe Gates alla Difesa e Geithner al Tesoro se fosse vero il contrario).
È stata, però, una retorica fortemente internazionalista e globalista. Se è vero, infatti, che di politica estera e di relazioni internazionali si è parlato poco o nulla, al mondo è stata dedicata un’attenzione non scontata. È, quello narrato da Obama, un mondo le cui parti più dinamiche (la Cina, l’India e, sia pure en-passant, la stessa Europa dei “treni più veloci e delle fabbriche che producono energia pulita”) devono costituire metro e termine di paragone per gli Stati Uniti. Sono pezzi di mondo, questi, capaci di esprimere una competitività – una capacità di guardare al futuro – che è sempre stata degli stessi Stati Uniti (“la nostra nazione”, ha affermato Obama, “è stata costruita per competere … dobbiamo essere aggressivi nel cercare nuovi mercati così come lo sono i nostri competitori”). E sono controparti con i quali gli USA sono chiamati appunto a competere: nella produzione, nell’innovazione, nell’efficienza. In una logica concorrenziale che fa del mondo uno spazio di possibilità: un luogo verso cui “raddoppiare le nostre esportazioni nei prossimi due anni”, ha affermato Obama, perché “più prodotti … vendiamo ad altri paesi, più lavoro creiamo qui in America”.
Quello descritto da Obama è comunque un mondo dal quale gli USA possono imparare, con il quale si devono mettere in (pacifica) competizione, e che debbono sfruttare appieno per le grandi opportunità che esso offre. Vi è una differenza sostanziale rispetto al tipo di retorica che ha dominato negli ultimi anni il discorso pubblico statunitense. Quello di Obama non è, infatti, il mondo cui dare lezioni – di democrazia, di libertà, di libero mercato – cui ci aveva abituato Bush e, in parte, l’ultimo Clinton. Non è un mondo da redimere e trasfigurare. Parole come freedom e liberty – che costellarono i discorsi sullo Stato dell’Unione, e più in generale la retorica, di Bush – non ne fanno parte (in un discorso di un’ora solo la prima, freedom, è stata pronunciata una volta). L’America di Obama non ambisce a trasformare il mondo, ma a farsi trasformare essa stessa dalle sfide che questo mondo le pone di fronte: “La Cina non sta attendendo per riorganizzare la propria economia. Non sta attendendo la Germania. Non sta attendendo l’India. Questi paesi non stanno fermi. Non giocano per il secondo posto. Pongono un’enfasi maggiore sullo studio della matematica e della scienza. Stanno ricostruendo le loro infrastrutture. Fanno seri investimenti in energia pulita perché vogliono i lavori che essa garantisce. Beh, nemmeno io accetto il secondo posto per gli Stati Uniti”. Parole forti, queste. Destinate, è chiaro, a un’audience interna e funzionali agli obiettivi politici ed elettorali – del presidente e del suo partito. Alle quali il resto del mondo dovrebbe però porre la giusta attenzione.