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Il dibattito sul salario minimo: la Casa Bianca entra in campo

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Tra i provvedimenti annunciati dal presidente americano Barack Obama nel discorso sullo Stato dell’Unione del 28 gennaio, spicca quello relativo al “salario minimo”. Si tratta di un aumento della paga oraria minima per i dipendenti di aziende che hanno in gestione concessioni governative. Dal 2015, la Casa Bianca imporrà a tutti i firmatari di nuovi, o rinnovati, contratti federali di appalto di pagare i propri lavoratori un minimo di 10,10 dollari l’ora, contro i 7,25 attuali. Siccome il decreto presidenziale entrerà in vigore solo l’anno prossimo e sarà implementato gradualmente – non si applica ai contratti esistenti – e siccome, anche a pieno regime, interesserà al massimo qualche centinaio di migliaia di persone, non si prevede che avrà un impatto significativo sull’economia.

Assai più importante sarebbe invece una legge che estendesse questo stesso incremento della paga oraria minima a tutti gli americani. Una proposta che si muove in questa direzione – prevedendo tre scatti annuali di 95 centesimi l’uno tra il 2014 e il 2016 e facendo poi crescere la cifra parallelamente al tasso di inflazione — è già stata presentata in entrambe le camere del Congresso, dai Democratici Tom Harkin (senatore dell’Iowa) e George Miller (deputato della California). Ma affinché tale disegno di legge sia approvato, è necessario anche qualche voto repubblicano. Uno scenario oggi quasi inimmaginabile data l’assoluta opposizione del Grand Old Party all’agenda legislativa dell’amministrazione.

Con il suo ordine esecutivo, Obama prova così unilateralmente a portare avanti il dibattito – sulla disuguaglianza e su una ripresa economica a due marce che sembra favorire i ricchi a discapito dei lavoratori meno abbienti. È una discussione che sempre più spesso occupa le prime pagine dei quotidiani e le dichiarazioni dei politici, ma su cui liberal e conservatori non riescono a trovare un accordo.

Come afferma David Cooper, analista presso l’Economic Policy Institute (EPI), un centro di ricerca progressista con sede a Washington, “Il momento per un aumento è arrivato già da tempo. Al suo picco nel 1968, il salario orario minimo federale equivaleva a circa 10 dollari di oggi: quindi i 7,25 dollari pagati ora significano che il suo valore reale è sceso del 23% negli ultimi 45 anni”. Una vera e propria ingiustizia se si considera che i lavoratori americani del 2014 sono meglio istruiti che i colleghi del 1968 e capaci di operare a un livello di produttività più che doppio.

Il calo effettivo del salario orario minimo è particolarmente deleterio per l’economia americana perché negli anni è cresciuta la percentuale di adulti e capi-famiglia che vi dipende (un tempo si trattava soprattutto di liceali e universitari che lavoravano part-time o d’estate per mettere assieme un po’ di denaro per piccole spese). Secondo i calcoli dell’EPI, un suo aumento a 10,10 dollari coprirebbe circa 28 milioni di americani. “Di questi, solo il 12% sono adolescenti – dice Cooper – L’età media è 35 anni, oltre la metà lavora a tempo pieno e circa un quarto ha figli”.

Si tratta insomma di intere famiglie che faticano ad arrivare alla fine del mese pur lavorando, a volte anche con molte ore di straordinario. E che, con una paga migliore, stabilizzerebbero il proprio tenore di vita e, avendo un po’ di contante in più a disposizione per finanziare i propri consumi, contribuirebbero anche alla crescita dell’economia nazionale.

Queste conclusioni sui benefici complessivi di un aumento del salario minimo federale sono generalmente accettate a Washington. La controversia sta dall’altro lato della medaglia, quello dei costi. I critici dell’ordine esecutivo di Obama, ad esempio, sostengono che il prezzo dello scatto salariale per i contractor del governo finirà per essere sostenuto interamente dai contribuenti, giacché Washington sarà costretta a rifiutare, nelle gare di appalto, le offerte più a buon mercato, quelle fatte da aziende che pagano meno i propri dipendenti.

A livello nazionale, il timore è che un disegno di legge come l’Harkin/Miller, facendo salire i costi per i datori di lavoro, porti a un aumento della disoccupazione. “Con più lavoratori attratti dal salario più alto che competono per un numero inferiore di posti di lavoro, il tasso di disoccupazione è per forza destinato a crescere – dice Mark J. Perry, professore di economia presso University of Michigan-Flint e studioso all’American Enterprise Institute (AEI), un centro di ricerca conservatore di Washington.

Storicamente, gli studi empirici condotti in proposito comprovavano questa argomentazione. Tuttavia, alcune ricerche più recenti – in cui gli economisti mettono a confronto due contee confinanti e dai profili economici simili, una delle quali ha aumentato di recente il salario orario minimo e l’altra no – pare invece suggerire che questo tipo di intervento pubblico, se fatto con moderazione, non ha un effetto percepibile. “Se le cifre proposte fossero sostanzialmente più alte, allora forse avremmo ragione di preoccuparci – dice Cooper dell’EPI – Ma i numeri di cui si discute sono modesti: in termini percentuali sono ancora più bassi dell’ultimo aumento del salario orario minimo federale, che tra il 2007 e il 2009 passò da 5,15 dollari a 7,25”.

Secondo Perry, però, esistono anche vari costi indiretti. Le aziende potrebbero ad esempio rispondere a queste nuove condizioni riducendo le ore lavorative e i benefit offerti ai dipendenti. “In pratica, i lavoratori meno qualificati potrebbero essere colpiti negativamente dall’aumento della paga oraria in modi che possono anche non riflettersi esplicitamente sui livelli di occupazione”, dice l’economista dell’AEI.

La critica forse più importante che arriva da chi è contrario all’istituzione di un salario orario minimo federale riguarda l’arbitrarietà con cui ne viene solitamente stabilito il livello. “I propugnatori di questa politica suggeriscono una qualche cifra, per esempio 10 dollari l’ora, ma non è mai del tutto chiaro perché debba essere quella la paga giusta – dice Perry – Perché non 9 dollari, o 15, o 500?”

Infine, per i conservatori americani, in particolare quelli di tendenze libertarie, esiste una fondamentale preoccupazione filosofica. Come sostiene Perry, “Il salario orario minimo viola le nostre libertà perché impedisce a due individui di accordarsi su uno scambio reciprocamente vantaggioso. Se io sono disposto a lavorare per 6,50 dollari l’ora e un’azienda è disposta a pagarmi tale ammontare, che diritto ha un politico o un funzionario governativo di bloccare tale intesa?” Una visione delle cose diametralmente opposta a quella dei liberal, le cui apprensioni morali ruotano attorno a questioni come la disuguaglianza e la giustizia sociale.

Date le profonde divergenze di opinione che separano le due parti, è difficile immaginare che si possa trovare un qualche compromesso praticabile a livello federale. Mentre Washington è paralizzata dallo scontro ideologico tra Democratici e Repubblicani, si stanno muovendo invece Stati e municipalità. Di recente, California, Connecticut, New Jersey, New York, e Rhode Island hanno tutti implementato provvedimenti che, in una misura o nell’altra, hanno alzato il livello minimo della paga oraria. Il Maryland potrebbe essere il prossimo a seguire questo esempio. E pare che anche Seattle e Chicago abbiano intenzione di aumentare il proprio salario orario minimo cittadino. “Penso ci sia impulso su questo tema perché la gente ha capito che 7,25 dollari l’ora non sono sufficienti a guadagnarsi da vivere – dice David Cooper – e se il Congresso non si mette in moto in fretta a livello federale, vedremo sempre più attività a livello locale”.

L’altra speranza per i lavoratori peggio pagati d’America viene da personaggi come Ron Unz, un miliardario repubblicano californiano che ha sponsorizzato un referendum per novembre che farebbe salire la paga oraria minima nel suo stato a 12 dollari (oltre quindi l’aumento già previsto nello stato per il 2016). Secondo Unz, questa mossa aiuterebbe molti americani a sollevarsi sopra il livello di povertà, rendendoli quindi non idonei a ricevere una serie di sussidi pubblici. Nei calcoli di Unz, questo risulterebbe, a livello nazionale, in risparmi di decine di miliardi di dollari l’anno per il governo. Per ora, Unz è una voce solitaria all’interno del GOP, ma non è certo escluso che l’opportunità di tagliare ulteriormente la spesa pubblica convinca anche qualche altro collega di partito.