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Il “change” rovesciato

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Con una dose di ironia amara per i democratici, l’America, che martedì va alle urne per le elezioni di midterm, freme per un cambiamento che poco ha a che fare con il “change” diventato il marchio del presidente Barack Obama. Le promesse di Obama e persino i suoi stessi slogan si stanno ritorcendo contro il suo partito, che da mesi si sta interrogando non tanto sulla strategia per vincere le elezioni, quanto sul modo di limitare i danni. Un sondaggio di New York Times e CBS indica che l’80% degli elettori non darà fiducia ai candidati che cercano la rielezione e soltanto l’8% è convinto che i candidati in carica meritino di servire per un altro mandato. Nel 2006 gli oppositori alla rielezione erano il 69% e quella tornata è finita con la riconquista democratica di entrambe le Camere, aspra reazione alle politiche dell’amministrazione Bush. Insomma, oggi la sensazione è che serpeggi un analogo scetticismo verso il partito di governo, ma a parti invertite.

La percentuale di antagonisti dello status quo scende sensibilmente se la domanda del sondaggio da generica viene circoscritta allo stato di appartenenza: il 58% dice che il candidato del proprio stato (nel caso del Senato) o del proprio distretto elettorale (per la Camera) dovrebbe essere mandato a casa. Anche in questo i sentimenti di reazione all’immobilismo della leadership sono più accentuati rispetto al 2006. Molto della tendenza “anti-incumbency” è da attribuire alla condizione strutturale dell’economia, per la quale si cerca un capro espiatorio: chi è al potere o chi lo rappresenta di fatto è il destinatario naturale della protesta. Ma in meno di due anni i democratici stanno già sperimentato una nemesi del “change” che non ha precedenti nella storia americana recente: nemmeno negli anni delle guerre di George W. Bush, o nell’anno nero di Bill Clinton, il 1994, quando i repubblicani hanno travolto un Congresso ultra-democratico. E non sono soltanto gli irriducibili del Tea Party a capeggiare questa potente inversione di tendenza; proprio le fette di elettori indecisi che Obama e i democratici sono riusciti a portare alle urne nel 2008 ora rischiano di essere i responsabili della sconfitta.

Secondo un altro sondaggio condotto dal quotidiano di New York e dal network televisivo, i democratici hanno perso consensi fra le donne, i cattolici, le famiglie con reddito basso e gli indipendenti: quattro categorie strutturalmente disomogenee e volubili, difficili da portare ai seggi elettorali e mai riconducibili a un’etichetta di partito. Nel 2008 questi elettori hanno reso la vittoria di Obama schiacciante e ora che il vento politico è cambiato sono loro che guardano a destra alla ricerca di un cambiamento opposto a quello obamiano, una qualsiasi narrativa capace di dare una svolta a una situazione percepita come stagnante e mortifera.

Un dato interessante è che i sentimenti di sdegno – e talvolta di disprezzo – verso chi siede al Congresso e si candida a un altro giro sulla giostra di Washington non coincidono con una disaffezione generale verso l’agone politico; i numeri dicono infatti che la stessa percentuale di elettori del 2006 sta seguendo con attenzione la campagna elettorale. Lo scetticismo è piuttosto qualitativo, e l’elettorato instabile di centro subisce la tentazione di aderire a un progetto di cambiamento, poco importa se fumoso, inconcludente o rappresentato da candidati diametralmente opposti a quelli cui si è concessa fiducia l’ultima volta.

Stiamo davvero assistendo a una sorta di caso-studio sull’accelerazione dei tempi della politica. Ci sarà molo a imparare per tutti.