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Il Brasile e le sue nuove ambizioni

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I delegati dei paesi membri della FAO sceglieranno tra il 25 giugno e il 2 luglio il nuovo direttore generale dell’agenzia ONU con sede a Roma. Tra i candidati con maggiori chance di successo figura il brasiliano Graziano Da Silva: ex ministro di Luiz Inácio Lula da Silva e ideatore del programma Fame Zero, figura di punta della socialdemocrazia del paese sudamericano. Si tratta di una conferma dell’evoluzione del PT (Partido dos Trabalhadores), avviato come movimento di lotta negli anni Ottanta e divenuto ora principale fautore del successo economico e geopolitico del paese. Sebbene sia stata la discussa presidenza di Fernando Henrique Cardoso degli anni Novanta a innescare la crescita economica, quest’ultima è stata coadiuvata da programmi sociali efficaci e dalla capacità del partito di Lula di garantire la pace sociale. A ciò si è aggiunta una politica estera complessa e articolata su diversi livelli.

Il discorso di candidatura di Da Silva ha evidenziato proprio ciò che il Brasile ambisce a rappresentare sullo scacchiere internazionale: una forza di raccordo tra il mondo sviluppato e quello in via di sviluppo, in grado di poter interagire autorevolmente con le grandi potenze e allo stesso tempo sensibile alle problematiche dei paesi più poveri. In questo senso, la politica estera del Brasile ha operato un salto di qualità evidente negli ultimi anni, collocando il paese in una posizione di maggior prestigio che include anche la ricerca di posizioni importanti presso le istituzioni internazionali – come testimoniato dall’ascesa nell’ambito del Fondo Monetario Internazionale.  

Forte di una diplomazia competente, il Brasile ha coltivato rapporti di cooperazione tecnica ed economica su scala mondiale, lasciando da parte le resistenze endemiche che storicamente avevano frenato l’evoluzione di legami poco graditi agli Stati Uniti. Nel perseguimento dei fondamentali interessi nazionali sono stati intensificati gli scambi economici con la Cina, diventata nel 2009 il primo partner commerciale, grazie soprattutto all’esportazione di materie prime. Non mancano tuttavia motivi di tensione a livello bilaterale, riguardanti la svalutazione dello yuan e la mancata importazione di beni a valore aggiunto da parte cinese; il Brasile ha adottato per tutta risposta diverse misure anti-dumping proprio al fine di ridurre l’invasione della manifattura asiatica

Più complessivamente, il ruolo giocato nel gruppo dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) pone il paese lusofono lungo l’asse trainante dell’economia mondiale, aprendo le porte a fette di mercato sempre più consistenti grazie anche alla sponda demografica dei paesi coinvolti nell’intesa. Ormai il raggruppamento dei BRICS ambisce a divenire perfino un nuovo spazio di governance mondiale, e non è fantapolitica pensare che possa mettere in discussione l’architettura della politica internazionale emersa dopo la seconda guerra mondiale.  

Sempre all’insegna del multipolarismo, Lula non ha avuto remore nello stabilire un filo diretto con Teheran, coltivato a suon di memorandum petroliferi. Il tentativo di mediazione sulla questione del nucleare iraniano ha rappresentato poi, esattamente un anno fa, una delle sfide più ambiziose della gestione di Celso Amorim alla guida del ministero degli Esteri brasiliano – sebbene l’iniziativa non abbia prodotto risultati concreti.

La politica di intensificazione delle relazioni sud-sud ha portato dei dividendi al Brasile anche nel contesto latinoamericano. Lula ha saputo mantenere un rapporto fruttuoso sia con Hugo Chávez, sia con leader moderati come la cilena Michelle Bachelet o apertamente conservatori come il colombiano Álvaro Uribe. Ha condannato in vari modi l’embargo statunitense di Cuba, causa popolarissima in America Latina. La costruzione, ancorché difficoltosa e incerta, dell’UNASUR (l’Unione delle Nazioni Sudamericane) ruota di fatto attorno all’egemonia della maggior economia continentale, a cui però non sono ancora corrisposti investimenti brasiliani di un certo peso. L’unione, intanto, ha già fornito l’agorà perfetta per rendere il Brasile un mediatore rispetto alle tensioni scatenatisi tra Colombia, Venezuela ed Ecuador negli anni scorsi, e dunque per mantenere la stabilità del proprio vicinato. Il recente episodio che ha visto una squadra di consulenti legati a Lula elaborare le strategie elettorali del candidato alla presidenza del Perù, Ollanta Humala, conferma l’influenza esercitata sul continente dal Brasile e dalla sua classe dirigente – che sta ormai superando il timore della diversità linguistico/culturale con l’America ispanica.

Su questo sfondo, la nuova presidentessa Dilma Rousseff sembra voler seguire un corso più prudente e ha raffreddato i rapporti con l’Iran, così come con il Venezuela di Chávez. A riprova di ciò, la recente visita di Obama ha riavvicinato Washington e Brasilia, dopo la diffidenza con cui il dipartimento di Stato aveva accolto la mediazione sul nucleare iraniano e alcuni attriti degli ultimi anni (seppure mai gravi).  Ad ogni modo, è ancora presto per stilare una valutazione complessiva della politica estera condotta da Rousseff e per capire se la doppia linea mantenuta sinora – economica e pragmatica con alcuni attori, maggiormente politica e dai toni più retorici con altri – sia stata del tutto accantonata.

Il Brasile ha bisogno di mantenere i due elementi che hanno contribuito a consolidare il proprio standing internazionale. In primo luogo l’immagine di potenza progressista nei rapporti con il mondo in via di sviluppo, espressa attraverso l’attenzione alle sfide globali come la fame e il cambio climatico, e dai programmi di cooperazione e sviluppo avviati soprattutto in Africa. Il Brasile ha poi dimostrato di preoccuparsi delle classi più disagiate al proprio interno, rendendo credibile la sua immagine internazionale: l’acclamatissimo programma Bolsa Familia è solo una delle politiche sociali che si riflettono nei dati economici per cui si punta a conciliare crescita e riduzione delle disuguaglianze. In secondo luogo, il paese ha dato prova di moderazione nelle politiche macroeconomiche, evitando misure di populismo fiscale, ed è rimasto estraneo all’estremismo verbale e politico di altri leader regionali: si è dunque dimostrato un interlocutore serio agli occhi dei paesi più sviluppati.

Il Brasile è situato in un continente privo dei conflitti e delle tensioni etniche, sociali e religiose che altre potenze emergenti si trovano ad affrontare. Mantiene relazioni aperte e schiette con attori internazionali di ogni tipo, pur senza sottacere critiche e distinguo, ove necessario. La sua economia è in espansione e, nonostante le molte e complesse sfide per il futuro, è ben posizionato per proiettare la propria egemonia. È all’avanguardia in un settore chiave come quello energetico, grazie a uno sviluppo senza pari delle bioenergie e delle fonti rinnovabili, oltre a godere della presenza di ingenti risorse petrolifere. Dispone delle risorse intellettuali adatte per disegnare le politiche interne ed estere più congeniali a risolvere pragmaticamente i propri problemi. È una democrazia trasparente e multiculturale con un peso demografico rilevante e destinato a crescere.

Questi ed altri fattori fanno del Brasile uno dei paesi più propensi a smorzare l’egemonia occidentale nelle relazioni internazionali, obiettivo nemmeno troppo implicito della propria politica estera. Ancor più importante sarà il suo impegno nel tracciare nuove regole del gioco che possano orientare un ordine pienamente post-occidentale. In questa luce, il ruolo di guida della FAO riveste particolare importanza dato il peso delle problematiche agricole e dell’alimentazione nelle relazioni con i paesi in via di sviluppo. Questi ultimi sono visti, nell’ottica brasiliana, come gli attori internazionali su cui fare leva e a cui proporsi come leader di riferimento.