“Sarà un anno difficile, ma la Germania va bene”. Il contenuto del messaggio che Angela Merkel ha rivolto ai tedeschi in occasione della fine dell’anno ha certamente suscitato l’invidia di molti colleghi occidentali della Cancelliera. La Germania affronterà il 2012 – l’anno che sarà cruciale per la sopravvivenza dell’euro, e che molti analisti considerano come lo spartiacque tra la possibile uscita dalla crisi e uno spaventoso scenario di stagnazione – potendo contare su una crescita del 3% per l’anno passato e un tasso di disoccupazione ai minimi da vent’anni (6,8%).
Stupiscono perciò solo parzialmente i dati pubblicati dagli istituti demoscopici: un tedesco su due è ottimista per il 2012, contro un 17% di pessimisti. Un tale atteggiamento è forse ingiustificato in senso assoluto: le previsioni per l’anno appena iniziato assegnano alla Germania una crescita ridotta all’1%; inoltre, gli elementi di divisione all’interno dell’UE sulla governance economica e sulle politiche anticrisi potrebbero produrre nuovi effetti deleteri sul mondo finanziario. Ma relativamente agli altri grandi paesi industrializzati, quello tedesco costituisce un esempio positivo di reazione alla crisi economica internazionale.
Le politiche anticrisi tedesche non si sono limitate a una cura dimagrante della spesa pubblica, ma hanno incluso un intervento diretto, ed efficace almeno in termini quantitativi, dello stato nel mercato del lavoro. Un pacchetto di provvedimenti introdotti a partire dal 2003 dal governo rosso-verde di Gerhard Schröder – molto contestati sia all’epoca sia oggi perchè considerati iniqui – si è rivelato specialmente adatto a contenere due fattori recessivi con cui diversi governi hanno fatto i conti negli ultimi anni: la spinta ai licenziamenti e l’aumento delle prestazioni sociali da erogare.
Le riforme, rafforzate negli anni successivi dalla “grande coalizione” CDU-SPD, prevedono da un lato l’esenzione del pagamento dei contributi per chi assume lavoratori part-time a basso salario e generosi sconti fiscali per chi vuole proporsi come piccolo imprenditore a basso reddito. Dall’altro, un deciso taglio dei sussidi di disoccupazione, accompagnato da un inflessibile meccanismo sanzionatorio per chi non rispetta i tempi o non accetta lavori “ragionevoli” anche a salario più basso del precedente. Il tutto sotto il controllo di un’agenzia pubblica, che si occupa anche di mettere in contatto l’offerta e la domanda di lavoro.
Il miglioramento del bilancio conseguito in tal modo (e irrobustito da un aumento dell’IVA di tre punti nel 2007) ha permesso al governo di intervenire in misura leggera su capitoli importanti di spesa pubblica come sanità e istruzione. La tenuta dei consumi interni ha consentito alle aziende di tornare a investire e ad assumere, potendo anche approfittare della contemporanea debolezza dei concorrenti, con risultati eccezionali sul piano delle esportazioni nei mercati meno esposti alla congiuntura.
Insieme a quello della disoccupazione, il dato del deficit – tornato ai livelli pre-crisi – colloca la Germania in una situazione più felice di quella che stanno vivendo le economie inglese e americana. Queste infatti, nonostante i livelli di crescita positivi, sono alle prese con un tasso di disoccupazione pressochè raddoppiato e un deficit di bilancio alle stelle rispetto a quattro anni fa. I tagli alla spesa sociale e l’assottigliamento della classe media che ne sono conseguiti hanno provocato negli Stati Uniti e nel Regno Unito, secondo molti analisti, un aumento delle diseguaglianze molto maggiore di quello riscontrato in Germania nello stesso periodo, con un analogo riflesso sulla conflittualità sociale.
Ciò pone seri dubbi sulla capacità di questi due sistemi economici di uscire dalla crisi grazie a una ripresa dei consumi interni: ne è consapevole Barack Obama, che già a partire dal 2008 ha chiesto ai paesi commercialmente in attivo del G20 di attuare politiche di bilancio più espansive, per stimolare i consumi mondiali attraverso i propri mercati. Si è trattato di una richiesta ripetutamente rifiutata dal ministro tedesco dell’economia Wolfgang Schäuble, che la condiziona all’adozione, da parte americana e britannica, di regolamenti più stringenti sui comportamenti di Wall Street e della City.
Sullo scenario europeo, il 2011 ha visto rafforzarsi nettamente la posizione tedesca. Il governo di Angela Merkel è riuscito a persuadere i paesi attanagliati dalla crisi del debito ad adottare il modello di austerità ispirato da Berlino e dalla Banca Centrale Europea. Contemporaneamente, ha resistito alle ormai innumerevoli pressioni perchè la BCE, regolata finora sul modello della Bundesbank, modifichi il proprio mandato trasformandosi in prestatore di ultima istanza dell’Eurozona: una svolta auspicata non solo da molti governi continentali, ma anche da Washington e da Bruxelles.
Il principale partner europeo della Germania, la Francia, affronta una congiuntura ben più complicata: la minaccia di declassamento del rating dei conti pubblici dovrebbe costringere il governo di Nicolas Sarkozy a un programma impopolare di tagli e aumenti delle tasse. Tuttavia, l’imminenza delle elezioni (maggio 2012) restringe i margini di manovra del presidente francese. Sarkozy e Merkel convergono oggi sulla necessità dell’introduzione a livello europeo della Tobin Tax sulle transazioni finanziarie. I 74 miliardi di dollari l’anno che questa imposta garantirebbe farebbero respirare i malconci bilanci nazionali, ammorbidirebbero le richieste di un intervento più diretto della BCE e potrebbero favorire un ritorno alla convergenza tra le economie più deboli e quelle più solide dell’Eurozona.
Si tratta di una soluzione che, unita all’accordo di dicembre sul federalismo di bilancio e all’eventuale convergenza sugli “eurobonds”, avrebbe dei riflessi politicamente positivi sul governo tedesco. Angela Merkel spera di evitare per il 2012 (anno pre-elettorale) un coinvolgimento più diretto della Germania nel salvataggio dei paesi europei a rischio default. La litigiosa coalizione di governo sta scontando un calo di popolarità che si è concretizzato in una lunga serie di sconfitte alle elezioni regionali: l’elettorato conservatore e liberale non perdonerebbe alla Cancelliera una generosità considerata ingiustificata nel sostegno agli altri membri dell’UE.
L’aumento dell’occupazione ha avuto anche l’effetto di riaccendere il dibattito interno sull’età pensionabile: la riforma varata nel 2007 dalla “grande coalizione” prevede uno spostamento graduale verso la quota dei 67 anni. È un tema sensibile: secondo molti osservatori, l’appoggio socialdemocratico al provvedimento è stato la causa principale della dura sconfitta subita dall’SPD alle politiche del 2009. Già alcuni esponenti della corrente più sociale della CDU hanno criticato gli aspetti più controversi della riforma, soprattutto il legame tra i versamenti delle pensioni e i redditi degli ultimi anni della vita lavorativa: in Germania, solo il 26% delle persone tra i 60 e i 64 anni ha un lavoro.
Ma è all’interno dell’SPD che si registrano i maggiori ripensamenti: la segretaria del partito, Andrea Nahles, ha appena annunciato un disegno di legge per sospendere l’aumento dell’età pensionabile finchè il tasso di occupazione degli ultrasessantenni non raggiunga il 50%. L’iniziativa ha avuto il plauso dei sindacati, ma Peer Steinbrück (possibile candidato socialdemocratico alla cancelleria e tra gli autori della riforma) se ne è dissociato; ha comunque dichiarato che la normativa va corretta.
Queste proposte arricchiscono il programma dell’opposizione rosso-verde, che già prevede un aumento della pressione fiscale sui redditi medio-alti e sui patrimoni. Se esso dovesse essere premiato in occasione delle elezioni politiche del 2013, la Germania potrebbe dunque trasformarsi nel primo grande paese occidentale ad invertire la tendenza, avviata negli anni della crisi, ad utilizzare la leva fiscale essenzialmente per coprire le necessità di bilancio. Il maggiore gettito potrebbe infatti essere destinato a una politica sociale più espansiva: si tratterebbe di una novità davvero rilevante.