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I tre cerchi della politica estera israeliana nel dopo-Mubarak

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Israele ha sempre teso ad accreditarsi come l’unico paese stabile dell’area mediorientale, e come un elemento a garanzia dell’equilibrio regionale. Nel discorso pronunciato da Netanyahu alla Knesset all’indomani delle sollevazioni di Tunisia – in un momento in cui parte dell’opinione pubblica in Israele guardava ancora con cauto ottimismo alle rivolte in Nord Africa – il premier disse espressamente che Israele rimaneva un bastione della sicurezza occidentale, grazie alla solidità delle proprie istituzioni democratiche e sopratutto del proprio esercito. Omise in quell’occasione di citare il trattato di pace israelo-egiziano, tema che sarebbe emerso come centrale nei suoi discorsi di appena un mese dopo, una volta rovesciato il regime di Mubarak.

Per anni il governo israeliano ha puntato principalmente su tre carte che sembravano consolidare lo status quo favorevole a Israele: il posticipo continuo di negoziati di pace con l’ANP (pur mantenendo allo stesso tempo uno stretto coordinamento di intelligence e polizia con i suoi corpi armati); la retorica anti-iraniana di ricompattamento dell’Occidente contro il fondamentalismo islamico, che includeva anche il boicottaggio di Hamas in quanto “satellite” iraniano; e infine il perseguimento di relazioni diplomatiche ed economiche con i cosiddetti “paesi arabi moderati”. Quest’ultimo canale è stato tenuto lontano dai riflettori e slegato da specifiche concessioni politiche, concentrandosi pragmaticamente verso lo sviluppo economico e a le esigenze energetiche (oltre che la cooperazione strategica in funzione anti-iraniana).

La rivolta popolare in Egitto che ha condotto alla caduta del regime di Mubarak ha però scosso i pilastri della sicurezza di Israele, da un fronte su cui né il Mossad, né gli analisti indipendenti avevano previsto tensioni per il 2011.

Si possono analizzare i cambiamenti intervenuti negli orientamenti israeliani in questi tre “cerchi”:

i rapporti con Hamas e l`ANP; le prospettive di tenuta del trattato di pace con l’Egitto; i rapporti con gli altri paesi arabi moderati riguardo tanto al dossier iraniano che alla stabilità complessiva dell’area.

Il primo “cerchio” è sicuramente quello più urgente e scottante per Israele, anche se il secondo potrebbe essere quello con ricadute di più lungo termine.

Fatah è uscita indebolita dalla rivoluzione in Egitto, essendo stata colta completamente impreparata. Abu Mazen sente vacillare la propria legittimità, così come sta vacillando quella di altri leader arabi al potere senza un chiaro mandato democratico: il governo dell’ANP non bandisce infatti elezioni di tutti i propri organi interni (Presidenza e Consiglio palestinese) da oltre un anno, a causa dello stallo seguito alla divisione politica con Hamas nella Striscia di Gaza. La divisione vede sostanzialmente due governi paralleli in vigore dal 2006 su due territori autonomi, ma i cui abitanti si riconoscono storicamente e si strutturano politicamente come un popolo unico. Non a caso, le manifestazioni palestinesi del 15 marzo hanno evidenziato il consenso popolare per una riunificazione tra le due leadership politiche: ciò superando o congelando per il momento le questioni ancora pendenti, che riguardano tanto i prigionieri e gli arresti di oppositori politici effettuati da entrambe le parti sia il diverso orientamento nei confronti di Israele.

Il governo di Abu Mazen si è affrettato a proporre un rimpasto governativo e a promettere nuove elezioni, dichiararsi anche pronto a una trattativa con il leader Ismail Haniyeh nella Striscia di Gaza al fine della riunificazione nazionale. Hamas, peroò, si è mostrata più cauta rispetto alle offerte dell’ANP (pur dicendosi pronta a incontrare Abu Mazen a Gaza), e alle richieste popolari che premono nello stesso senso (emerse con le manifestazioni che si sono tenute i giorni scorsi anche nella Striscia). Il calcolo è che la transizione in Egitto, e il ruolo che vi potrebbero tornare a giocare i Fratelli musulmani, prefiguri una revisione dello status quo a vantaggio proprio di Hamas – a partire da un allentamento dei controlli al valico di Rafah, lungo il Muro che separa la Striscia dall’Egitto.

La leadership politica che lavora da Damasco, come anche l’ala militare del movimento, premono intanto per un nuovo indurimento della linea verso Israele: ne è una buona prova la ripresa di lanci di missili dalla Striscia verso il Negev rivendicata da Hamas lo scorso 19 marzo. Un razzo della Jihad Islamica è arrivato il 23 marzo a ferire un civile a Beersheva, e lo stesso giorno si è registrato un nuoto attentato esplosivo a Gerusalemme. A questo punto, diventa sempre più probabile un’offensiva dell’IDF nella Striscia che ripeta in versione ridotta l’Operazione “Piombo Fuso” del dicembre 2008.

Ad oggi, l’attentato a Gerusalemme non è stato ancora rivendicato: se, come sembrerebbe, non è stato pianificato né da Hamas né dalla Jihad Islamica, è comunque rivelatore di profonde divisioni tra l’ala militare e quella politica di Hamas, nonché tra le varie milizie presenti nella Striscia. In ogni caso, Netanyahu ha già mandato un segnale forte all’ANP, affermando che formare un governo di unità nazionale con Hamas provocherebbe l’istantaneo congelamento di qualsiasi negoziate di pace.

Veniamo così al secondo “cerchio” della politica estera israeliana. Netanyahu e il suo entourage si sono professati pubblicamente ottimisti sulla tenuta del trattato di pace israeliano-egiziano. Si è data ampia eco al discorso del vice-presidente Omar Suleiman, che ha negato tassativamente la possibilità di una revisione del trattato. In un recente intervento all’Università Ebraica, il vice primo ministro israeliano Dan Meridor ha sostenuto che il trattato tutela gli stessi interessi strategici egiziani e dunque ha buone prospettive di tenuta. Meridor ha però fatto una più ampia analisi degli sviluppi regionali che rivela anche alcune preoccupazioni: le rivolte popolari nel mondo arabo esprimerebbero una domanda dal basso che accresce l’importanza di una forma di soft power. Il carattere spontaneo e relativamente non violento di almeno alcune delle manifestazioni in corso in molti paesi arabi, pone un dilemma nuovo: se una tattica analoga fosse applicata dai palestinesi, costruendo lo stato “dal basso”, potrebbe risultare più agevole ottenere il riconoscimento diplomatico da molti governi. Questa considerazione tattica, o di metodo, si collega poi al più tradizionale timore che regimi arabi più democratici sarebbero complessivamente più ostili a Israele rispetto al recente passato. Insomma, la democratizzazione del Medio Oriente significherebbe dare voce a coloro – la maggioranza dei cittadini arabi – che appoggiano il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, la forzatura del blocco militare imposto a Gaza, e la costruzione di uno stato palestinese su entrambi i territori secondo i confini del 1967, come sancito nelle clausole contenute nell’Iniziativa di Pace Araba del 2006. Tale posizione, per quanto non estremista, pone a Israele problemi che lo stesso Meridor non esita a definire “capaci di provocare la distruzione dello Stato ebraico”.

Nel più breve termine, intanto, con l’Egitto sono già cresciute le preoccupazioni sul piano della sicurezza: l’esercito egiziano ha allentato il controllo sul Sinai (smilitarizzato da trent’anni) e in generale su tutti i suoi confini: i traffici illegali di armi verso la Striscia sono ripresi intensamente via mare e via terra, come dimostrato dall’ultimo carico di mortai, proiettili e missili di provenienza iraniana destinato a Gaza che è stato intercettato dalle forze israeliane. A ciò si aggiunge il problema del controllo dell’immigrazione dall’Africa, per il quale il regime di Mubarak e il governo israeliano cooperavano da anni: ora Israele intende ricorrere alla costruzione di una nuova barriere difensiva lungo il confine egiziano.

Resta infine il terzo “cerchio” del ruolo regionale di Israele: quello degli stati arabi “moderati”. Gli analisti israeliani tendenzialmente concordano sulla capacità della Giordania di avviare riforme interne tali da soddisfare in parte le richieste popolari, e sulla solidità del regime di Assad in Siria (anche se in questi giorni sono in corso manifestazioni nel paese che hanno portato in piazza 10.000 persone solo a Damasco e causato oltre 25 morti a Deraa, nel sud del paese). Vi sono timori assai maggiori per l’instabilità del Libano e la possibilità che un nuovo conflitto possa essere provocato da Hezbollah.

In questo quadro molto dinamico, anche a prescindere dalla questione iraniana in quanto tale (che pure resta sullo sfondo), si preannuncia una profonda revisione strategica per Israele. I primi segnali lanciati dal governo non sono però certo distensivi, cominciando dall’annuncio di nuovi insediamenti. Forse il governo israeliano non ha ancora preso piena coscienza del fatto che dovrà interfacciarsi con un nuovo Medio Oriente.