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I timori di Israele sulle rivolte arabe

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Un nemico certo è sempre preferibile a un nemico incerto, ripetono come un mantra gli strateghi israeliani quando guardano alle recenti trasformazioni del vecchio ordine mediorientale. Alle frontiere di Israele imperversa infatti la “tempesta perfetta” destinata a cambiare il volto dell’intera regione in un futuro che sembra davvero molto prossimo.

Va anzitutto ricordato che il regime di Ben Alì in Tunisia e soprattutto quello di Hosni Mubarak in Egitto sono stati percepiti nella regione come amici affidabili dell’Occidente per più di trent’anni; e che in particolare dopo l’11 settembre erano diventati alleati indispensabili nella lotta contro il terrorismo internazionale.

L’ascesa di partiti religiosi rischia di spazzare via ogni speranza per i diritti umani, l’emancipazione delle donne nella società araba e lo stato di diritto democratico, cioè quei principi che avevano spinto le masse a invadere le strade di Tunisi e del Cairo. Ecco perché, quando discutono degli eventi che stanno accadendo intorno a loro, gli israeliani mettono l’accento sui gravi pericoli del “nuovo ordine mediorientale”, anche se in realtà non tutti nel paese sono d’accordo su questo giudizio.

Un giudizio variegato tra gli esperti e nell’establishment
Il primo tipo di reazione alle rivolte arabe è stato nettamente negativo: le posizioni pessimistiche sono esemplificate dal premier Benjamin Netanyahu, dai maggiorenti del Likud e da molti altri politici israeliani che provengono dagli ambienti dell’intelligence e della sicurezza. Netanyahu ha dipinto un quadro fosco e minaccioso: “Nonostante tutte le nostre speranze, sono altissime le probabilità che un’ondata islamica investa i paesi arabi, un’ondata anti-occidentale, un’ondata anti-ebraica e in ultima analisi la nascita di dittature islamiche”.

Un altro settore dell’establishment politico e strategico d’Israele ha anch’esso una visione negativa degli eventi in corso al Cairo, a Tripoli, a Tunisi, in Siria e Giordania, ma ha cercato di introdurre una lettura diversa delle possibili conseguenze. Il generale Amos Yadlin, l’ex capo dei servizi segreti militari che ora dirige l’INSS (Institute for National Strategic Studies), ha sostenuto che “l’ondata di proteste nel mondo arabo rappresenta più una possibilità che non un rischio per Israele”. L’ex capo del Mossad Meir Dagan ha dichiarato che la sfida militare a Israele scomparirà entro cinque anni dall’inizio delle rivolte. E anche nel mondo diplomatico israeliano l’approccio, pur rimanendo guardingo, non è del tutto ostile; Yitzhak Levanon – ambasciatore in Egitto fino alla fine del 2011 – sostiene che “non bisogna guardare solo al bicchiere mezzo vuoto”.  

Certamente non guardano al bicchiere mezzo vuoto due figure importanti del mondo politico e sociale israeliano. Il primo è il presidente Shimon Peres, l’ultimo dei Padri fondatori di Israele, che ha scritto sull’inglese The Guardian: “Israele guarda con favore alla primavera araba, accoglie con favore il vento di cambiamento e vi vede una finestra di opportunità”. L’ex dissidente sovietico Nathan Sharansky – che dopo gli impegni alla Knesset adesso guida l’Agenzia ebraica – ha scritto in un articolo sul Washington Post che “l’Occidente deve puntare sulla libertà in Egitto”.

Non è un caso però che questi due articoli siano comparsi sulla stampa straniera e non su quella israeliana, perché l’uomo della strada, la “pancia” di Israele, ha altri umori. I sondaggi ci descrivono un’opinione complessa e dinamica, fortemente spaccata. La metà degli israeliani considera gli eventi della primavera araba positivi per Israele e i suoi vicini; l’altra metà vede nell’instabilità interna che scuote i paesi dopo rivoluzioni anche pacifiche una fonte di nuove preoccupazioni; le turbolenze che continuano a travagliare il mondo arabo sono considerate sempre più come una minaccia alla sicurezza nazionale. E poi, come scrive Amos Yadlin nelle sue conclusioni al rapporto annuale sulle prossime sfide per la sicurezza nazionale d’Israele: “Il mondo dei movimenti islamici è di ampio spettro e la questione se a lungo termine un partito islamico nel mondo arabo possa governare democraticamente è ancora aperta”.

L’incubo del Sinai
Dopo la vittoria della Fratellanza musulmana in Egitto, Israele ha temuto per la tenuta della pace di Camp David del 1979; ma quel trattato – malgrado contenga alcuni vecchi vincoli oggi non più giustificabili – ha resistito all’impatto, e la nuova leadership egiziana ha ribadito il suo rispetto dell’intesa che assicura al Cairo anche ricchi aiuti internazionali di cui ora la terra dei Faraoni non potrebbe fare a meno.

Quel che preoccupa molto è però la deriva della sicurezza nel Sinai. Tenuta sotto stretto controllo dall’ex raìs Hosni Mubarak, oggi l’immensa penisola che confina con Israele è diventata un rifugio per decine di bande filo-qaediste, e le sue strade fra le dune sono le rotte dei nuovi corsari del deserto (i clan di contrabbandieri beduini che trafficano ogni genere di prima necessità e anche grandi quantità di armi verso la Striscia di Gaza). Una “Tortuga”, secondo i servizi segreti occidentali, dove vecchie e nuove tensioni fra le popolazioni beduine si intrecciano con il caos egiziano, mentre la “Mafia araba” ha messo salde radici, legando le gang criminali ai gruppi che si ispirano a al Qaeda e sognano la nascita di un emirato islamico.

La frontiera con l’Egitto era considerata come il più sicuro dei confini israeliani; ora i pericoli maggiori per Israele vengono da qui. I duecentoquaranta chilometri di deserto che vanno da Gaza sul Mediterraneo fino a Eilat sul Mar Rosso sono diventati un incubo strategico per Israele. Una frontiera di sabbia quasi impossibile da controllare per un esercito. Per questo è stato costruito in gran fretta un muro – come quello che ormai circonda la Cisgiordania – nel tentativo di contenere l’immigrazione clandestina (solo nel 2011 sono comunque entrati in Israele 13.500 clandestini); ma l’allarme terrorismo è intanto cresciuto con la perdita di controllo del versante egiziano del Sinai. L’attacco terrorista dell’agosto 2011 – otto israeliani uccisi sulla Highway 12 che corre proprio lungo il confine – ha dato la spinta decisiva per fare del Muro del Sinai un’urgenza “di carattere nazionale e strategico”.

Uno dei punti al vaglio del governo israeliano è quello di permettere all’Egitto di aumentare la sua presenza militare nella penisola del Sinai e di spostare il suo raggio di azione oltre gli attuali 20km dal confine con Israele. Questo consentirebbe all’esercito egiziano di contrastare i gruppi terroristici che si sono installati nel Sinai e lo usano come “base d’attacco” verso Israele. In parziale deroga agli accordi di Camp David, l’estate scorsa Israele ha acconsentito alla richiesta egiziana di inviare 1.500 uomini appoggiati da mezzi corazzati nel Sinai per contrastare i gruppi terroristici. Alcuni ritengono che questa deroga momentanea debba diventare permanente (con un aumento sostanziale del numero delle truppe) al fine di permettere all’Egitto di riprendere il controllo del Sinai.

I confini a Sud e a Nord
La situazione di quasi-assedio in cui vivono dal 2007 quasi due milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza ha generato una consistente richiesta di beni da parte della popolazione, che viene soddisfatta attraverso una rete di centinaia di tunnel del contrabbando che passano sotto i 13 chilometri di confine fra il Sinai egiziano e la Striscia: un traffico nelle mani di una nuova una Mafia islamica con un giro d’affari per centinaia di milioni di dollari a settimana. Hamas, che della Striscia è il padrone da ormai sei anni, ha dimostrato nell’Operazione Pilastro di Difesa – la guerra degli otto giorni del novembre 2012 – di possedere un arsenale missilistico in grado di reagire agli attacchi aerei israeliani: le armi che sono oggi in grado di colpire fino a Tel Aviv e Gerusalemme (razzi di fabbricazione russa, cinese e coreana) sono passate attraverso gli stessi tunnel che servono per il contrabbando delle lavatrici e delle automobili.

Non è ancora chiaro per Israele cosa accadrà invece sul Fronte Nord, lungo quegli ottanta chilometri di frontiera con la Siria che attraversano le colline del Golan come una ferita mai rimarginata. Forse la fine del regime di Bashar Assad è solo questione di settimane, come sostiene l’ex ministro della Difesa Ehud Barak: ma a preoccupare Israele è cosa accadrà dal momento successivo alla sua (eventuale) caduta.

La “primavera di Damasco” è stata spazzata via da una guerra civile che dura da oltre due anni, con centinaia di migliaia di sfollati entro i confini nazionali e rifugiati fra Turchia, Giordania e Libano. Gli arsenali militari siriani – comprese le armi chimiche – non devono cadere nelle “mani sbagliate”, cioè finire ai miliziani dell’Hezbollah libanese che sembra aver legato a fino doppio la sua sopravvivenza a quella del regime alawita.

Ma Israele è anche in allarme per le possibili reazioni degli ayatollah iraniani all’eventuale caduta di Assad e per le decine e decine di gruppi e milizie di volontari jihadisti attualmente operative in Siria contro le truppe del regime: in uno scenario simile a quello dell’Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein, questi potrebbero rivolgere le loro armi contro Israele.