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I tassi della Fed e i dubbi sull’economia mondiale

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La recente decisione della Federal Reserve di ritoccare al rialzo i tassi d’interesse, da 0-0.25% a 0.25-0.5%, è stata accolta dai media e dagli esperti internazionali come un evento perfino epocale, destinato a cambiare i destini delle economie mondiali e ad avere un’influenza anche sul futuro della Cina. Ma è davvero così? Tale lettura risulta un po’ esagerata e ritengo, invece, che tale rialzo dei tassi non porterà nessun cambiamento sostanziale al corso di sviluppo economico della Cina e, probabilmente, neppure a quello degli Stati Unit stessi. Negli ultimi anni si è accentuata una certa tendenza a dare peso eccessivo alle politiche monetarie delle banche centrali, le cui decisioni vengono ormai quasi considerate l’unico strumento di crescita economica. Fattori di crescita come l’aumento della produttività, le riforme dei sistemi d’istruzione, le spinte verso l’innovazione e, in genere, le politiche fiscali sono state invece relegate a un ruolo secondario. Se appare innegabile che la risposta iniziale, e perentoria, della Fed alla crisi finanziaria del 2008 sia stata strumentale a contenerne l’impatto, non è altrettanto chiaro se una politica pluriennale a tassi zero abbia portato gli effetti positivi desiderati nell’economia globale.

In genere, la riduzione dei tassi da parte di una banca centrale dovrebbe portare a una maggiore propensione agli investimenti e a un aumento dei consumi, fattori che portano a una maggiore crescita economica nel paese in questione. Tuttavia, non tutti gli economisti si trovano d’accordo con questa interpretazione e alcuni ritengono che l’opposto possa essere vero. È una tesi da considerare seriamente, poiché una politica monetaria espansiva può in effetti portare a effetti economici negativi.

Questa incertezza sugli effetti reali delle azioni delle banche centrali si manifesta per variazioni significative dei tassi, diciamo tra uno o due punti percentuali in su. Per esempio, non esiste un consenso unanime che stabilisca se tassi al 2% abbiamo effetti più positivi sull’economia di tassi al 3% o 4%. Quando il differenziale di tassi è molto basso, come nel caso di questa recente variazione di 0.25%, tale incertezza è ancora maggiore: non è chiaro quindi se la scelta di Yellen porti benefici per l’economia americana e mondiale. Tassi bassi tendono a creare alcuni incentivi perversi: spingono le aziende ad accedere al credito quando altrimenti non potrebbero permetterselo mentre gli istituti di credito tendono ad abbassare la guardia sui criteri di solvibilità dei nuovi debitori. Una situazione che, nel breve termine, crea l’illusione di una spinta economica, ma che, nel lungo termine, porta alla creazione di “bolle”, a un’allocazione del denaro non ottimale e a conseguenti ritorni sugli investimenti sempre più limitati. Insomma, una scelta di questo genere sposta il problema più in là nel tempo ma lo rende più grave. Si potrebbe dire: eurozona docet. Anche Thomas Picketty ci ricorda che nei secoli, sia ai tempi di Jane Austen che in anni recenti, un ragionevole tasso di rendimento è sempre stato intorno al 5%.

Ciò posto, la situazione attuale è resa ancora più incerta dalla scelta della Fed di tenere i tassi quasi a zero per ben sette anni. L’incertezza che ne deriva è così moltiplicata per sette, anche perché i meccanismi di trasmissione dei tassi sulle economie reali impiegano anni per realizzarsi e gli effetti collaterali (le conseguenze a cui non si è data la giusta attenzione) impiegano ancora di più. Non essendo ancora chiaro neanche quale sia stato l’effetto della decisione presa dalla Fed nel lontano 2009 di portare i tassi a zero, è pressoché impossibile prevedere oggi quale sarà l’impatto del loro recente rialzo. Si dice che Deng Xiaoping, leader cinese e architetto delle riforme degli anni ‘80, alla domanda di quali pensasse fossero stati gli effetti della rivoluzione francese, rispose con un perentorio “È ancora un po’ presto per dirlo”.

In questo clima di incertezza si inserisce la domanda di quale sia l’effetto del rialzo dei tassi in America sull’economia cinese. La risposta più sensata è che l’effetto sarà molto limitato se non nullo. In primis, bisogna tener presente che, in termini strettamente relativi, un aumento del tasso d’interesse in America è equivalente a una diminuzione dei tassi d’interesse in Cina. In sostanza, il rapporto tra i tassi dei due paesi è identico sia che la Cina adotti una politica monetaria espansiva sia che, come in questo caso, la Fed stringa le corde. Tra l’altro, la Cina è già in una fase di politica monetaria espansiva da più di un anno e quindi la recente scelta della Yellen può configurarsi come completamente in linea con la politica monetaria adottata da Pechino. Il governo cinese, infatti, dopo aver ridotto i propri tassi nelle ultime sei occasioni consecutive, al ritmo di una volta ogni due mesi, stavolta non ha agito, come a prova che il taglio de facto dei propri tassi, sia stato eseguito attraverso l’aumento di quelli americani.

L’aumento relativo dei tassi in USA rispetto a quelli in Cina dovrebbe portare a un maggiore flusso di capitali, in questo caso in uscita dalla Cina. È probabile però che questo fenomeno sarà contenuto in presenza di una variazione bassa come un quarto di punto percentuale. In genere, una variazione dello 0.25% è sufficiente a produrre un flusso di capitali incrementali, ma ciò è vero per un paese i cui mercati di capitali sono aperti al 100%. Nel caso della Fed è verosimile attendersi un flusso in uscita dall’Europa verso gli Stati Uniti, nessuno dei quali opera un sistema di controllo del conto capitale. In genere sono i grandi fondi a essere i motori di tale flusso, fondi per i quali una variazione dello 0.25% sui tassi, anche se a breve, può rappresentare un’opportunità di guadagno elevato.

Diverso il caso della Cina, dove il conto capitale è controllato dal governo e non sono i fondi d’investimento a muovere i capitali, ma piuttosto i magnati e i capitani d’impresa che hanno accumulato ricchezza nel tempo. In genere, la principale motivazione di tali individui, esportare capitali, sta più in un desiderio di diversificare i propri asset in paesi al di fuori della Cina, di investire in valute diverse dal RMB, piuttosto che rincorrere un quarto di punto di percentuale in più. In altre parole, l’elasticità dei tassi relativi sui flussi di capitali è molto bassa e, in ogni caso, il valore dei flussi è semi-controllato dal governo.

Un terzo effetto della variazione dei tassi USA si potrebbe manifestare in un più elevato costo del denaro – rate di interessi – per quelle aziende cinesi che abbiano contratto debito in valuta straniera. Secondo una nostra ricerca oggi in corso, il 30% delle aziende cinesi quotate in borsa sembra faccia uso notevole di prestiti in dollari ed euro nel tentativo di abbattere il costo dei propri prestiti. In Cina infatti il costo del denaro è stato ed è tuttora più elevato che in Europa e negli Stati Uniti. Per tali aziende, l’aumento dei tassi Fed, qualora si riflettesse anche in un aumento di quelli sui corporate bond a breve scadenza, porterebbe a un ulteriore aumento nel costo del denaro, per quanto leggero. Ma anche in questo caso l’impatto sarebbe mitigato dal fatto che molte tra tali aziende hanno contratto debiti in dollari sì, ma a tassi fissi. L’aumento del costo del denaro quindi si manifesterebbe soltanto a scadenza e a un’eventuale rifinanziamento del prestito, non immediatamente.

Ad ogni modo, anche se così fosse, ho ricordato in precedenza come l’aumento del costo del denaro porta anche disciplina nel sistema industriale e maggiore attenzione nell’uso dei finanziamenti. Il paradosso è che quello che potrebbe sembrare una notizia negativa per la Cina (aumento dei tassi in America) potrebbe in realtà rivelarsi una buona medicina per stabilizzare il sistema finanziario nazionale, ancora in via di sviluppo. Ma, come insegna Deng Xiaoping, “è ancora un presto per dirlo”.