È logico interrogarsi sul ruolo dei social network nel mondo arabo, ovvero su quanta importanza abbiano realmente avuto i nuovi mezzi di comunicazione nel lanciare e alimentare le proteste, costituendone la cassa di risonanza.
Uno dei quesiti è perché i social network avrebbero avuto questo effetto imponente e dilagante soltanto ora,, mentre in Europa e altrove sono utilizzati in modo massiccio senza che abbiano mai costituito una minaccia all’ordine costituito. Bisogna dunque analizzare quale sia l’uso che di internet si compie in tali paesi e metterlo in relazione con le motivazioni specifiche che hanno animato ciascuna rivolta.
In Tunisia, il 50% della popolazione è sotto i 30 anni, la disoccupazione è al 23,7% e l’utilizzo di internet diffusissimo: il 18% della popolazione ha un account Facebook. Durante gli ultimi anni di Ben Ali, il regime controllava nel dettaglio l’utilizzo e l’accesso ai siti internet, penetrando talvolta anche negli account privati per ottenere informazioni sull’attività politica dei cittadini. Nonostante questo, internet restava uno spazio di libertà di parola per tutti quei giovani che non potevano esprimersi altrimenti.
In Egitto, i giovani sono il 61%, milioni e il tasso di disoccupazione appena più basso che in Tunisia, pari al 21.7%. Il regime di Mubarak, generalmente più liberale di quello di Ben Ali in quanto al controllo su internet, ha oscurato la rete la notte tra il 27 e il 28 gennaio in un disperato tentativo di stemperare la protesta. Il movimento spontaneo del 25 gennaio, che ha dato vita a un proprio blog (Jan25voices), è allora sceso in piazza ancora più motivato a resistere. I blogger egiziani hanno commentato che forse, senza l’oscuramento, molti più giovani sarebbero restati dietro lo schermo di un computer ad assistere passivamente agli eventi.
Vediamo allora quale tipo di correlazione esiste tra età media nei paesi arabi (con paesi come lo Yemen in cui i giovani sotto i 30 anni costituiscono il 72% della popolazione), l’utilizzo di internet, e il grado di mobilitazione sociale.
Gli Emirati Arabi Uniti e gli altri Paesi del Golfo registrano la maggiore diffusione di internet, con una percentuale di utenti di social network che si aggira intorno al 70%. Il boom delle aperture di nuovi account si è registrato a seguito di due eventi: la liberalizzazione dei domini lanciata dall’ICANN nel giugno del 2008, che ha permesso la diffusione di indirizzi con estensioni anche a caratteri non latini; e il lancio della versione araba di molti siti, come ad esempio Facebook, che ha notevolmente ampliato le potenzialità di tali network nel mondo arabo non anglofono.
Ghassan Haddad, responsabile dell’internazionalizzazione di Facebook nel mondo arabo, sostiene che il lancio della nuova versione araba del sito abbia fatto registrare un incremento del 25% degli utenti, la cui quota maggiore si è avuta in Arabia Saudita. Tutto questo è stato ottenuto senza nessuna campagna o sforzo pubblicitario ma semplicemente attraverso il passaparola. Attualmente, 12 milioni di arabi utilizzano Facebook. Fouad Jeryes, che lavora con il social network D1G, afferma che la diffusione di siti di discussione e dibattito nel mondo arabo si allarghi a macchia d’olio elaborando sempre più modelli homegrown, ovvero non come semplice traduzione di popolari siti occidentali ma in versioni locali di forum e chat. I social network incontrerebbero un grande successo anche per la cultura della socialità araba, che spingerebbe i giovani a reinterpretare in chiave tecnologica la tradizionale inclinazione al dibattito ed alla discussione nei caffé.
Tutta questa effervescenza mediatica si scontra però con una forte repressione esercitata a vario titolo da molti regimi, che temono naturalmente il successo della rete e della comunicazione alternativa che vi trova posto. Un esempio tra tutti è quello della Siria, dove dal 1962 è stata varata una legge di emergenza che include anche forme di controllo sui media e la libera espressione. Questa ha portato, ad esempio, nel dicembre 2010 all’arresto di un famoso blogger di 19 anni (Tal al-Mallahi) che diffondeva informazioni e opinioni sul conflitto israelo-palestinese non avallate dal regime. Interessante notare che appena pochi giorni fa la Siria, dopo tre anni di oscuramento, ha aperto l’accesso a You Tube, Facebook e Blogspot.
Le forme di censura adottate nei vari paesi arabi differiscono le une dalle altre in quanto a specifici contenuti: per restare al caso della Siria, qui è proibito dare spazio alla minoranza curda o ai Fratelli Musulmani, ma anche a tutti quei siti che potrebbero comportare larga diffusione di informazioni, come Wikipedia nella versione araba.
Di fronte però ad un sistema mediatico unidirezionale e rigidamente controllato dallo stato, ereditato dalla Guerra Fredda, i social network hanno rappresentato l’unica alternativa forte per colmare la fame di notizie dal mondo. Lo rivelano gli stessi esponenti delle TV o dei giornali di stato, come Juha al Naqash di Nile News, che ammette di non aver potuto trasmettere le immagini di Piazza Tahrir mentre le manifestazioni erano in corso. Del resto, in precedenza non aveva potuto parlare né di povertà, né di disoccupazione, né delle altre questioni sociali che travagliavano l’Egitto. Oggi questi stessi giornalisti delle TV di stato egiziane reclamano l’epurazione dei vertici ed una nuova gestione che permetta ai media di parlare “degli egiziani, e non del regime”.
Venendo invece alla capacità di mobilitazione dei nuovi strumenti, ha avuto un ruolo significativo il sito del movimento del 6 aprile, che riunisce in sé molti giovani protagonisti della rivolta di Piazza Tahrir (con 65.000 contatti). Ancora, le recentissime proteste in Libia sono state animate da un sito che si è definito “Day of Anger”, sul modello proprio della giornata egiziana, che è passato nell’arco di due giorni da 4.400 membri a 9.600.
I social network funzionano perché la gente apprende le notizie in fretta, si scambia informazioni logistiche in tempo reale, produce video e testimonianze che passano rapidamente i confini, e si tiene in costante aggiornamento con il resto del mondo. Ne riceve in cambio anche messaggi di appoggio e solidarietà, sentendosi protagonista della storia che contribuisce a creare. In paesi dove, come in Egitto, il 67% dei giovani non risultava aver mai svolto attività politica e l’84% non aver mai partecipato a una manifestazione, internet ha dato voce a una massa invisibile. Le parole d’ordine lanciate sui blog hanno però funzionato perché il terreno sociale e culturale era pronto: questa nuova generazione di arabi è in parte “globalizzata” e reclama riforme ispirandosi anche al resto del mondo. Il suo altro punto di forza è che potrebbe rivelarsi una generazione maggioritaria, o comunque in grado di diventare il nucleo di una maggioranza di cittadini finalmente attivi.